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gli “ismi” post-moderni PDF Stampa E-mail
Scritto da riccardo ugolino   

Nel 1989, all’indomani della caduta del muro di Berlino, molti si affrettarono a proclamare la fine della storia, l’ineluttabilità del sistema capitalistico.

Il modello di produzione economica, di relazioni sociali, di valori culturali, affermatisi in Occidente,a partire dalla Rivoluzione Industriale, fu ritenuto l’unico possibile, un valore assoluto, al di là delle contingenze storiche.

Abbiamo assistito da allora, nei Paesi del socialismo reale , alla fine del sistema di produzione pianificato, in Occidente alla marginalizzazione delle forze sociali e politiche impegnate ad attutire gli effetti disastrosi sulla sostenibilità ambientale e sulle relazioni sociali dell’economia di mercato.

Di conseguenza, non sono stati seppelliti, sotto le macerie del muro, solo i Partiti comunisti, ma sono entrate in crisi profonda le socialdemocrazie occidentali.

La fine del bipolarismo, decretando la “finis historiae”, comportava l’affermarsi del neoliberismo e del mercato globale, la crisi dello Stato nazionale e regolatore che ha delegato al mercato funzioni sociali proprie (assistenza, sanità, istruzione, previdenza..) e a organismi sovranazionali, di natura tecnica, quali l’Organizzazione mondiale del commercio, le scelte di politica economica.

Il trionfo dell’Occidente e del pensiero unico, che hanno sancito l’unicità del modello di produzione economica e l’immutabilità dei rapporti sociali, ha provocato la crisi dei Partiti, la crisi delle ideologie e il superamento del discrimine tra Destra e Sinistra che aveva la sua ragion d’essere proprio nella diversità dei modelli economici e sociali di riferimento.

E’ in questo contesto, è negli anni successivi ai “Trenta gloriosi” del secondo dopoguerra, che affondano le proprie radici il berlusconismo (se il solo modello economico-sociale possibile è quello capitalistico, perché non affidare il governo del Paese al capitalista Berlusconi, che peraltro si è fatto da sé?) e il grillismo (se i Partiti sono tutti eguali e non c’è Destra né Sinistra perché non affidarsi a leader nuovi e giovani, “non compromessi con il potere”?).

Il giustizialismo diverrà lo strumento per delegittimare lo Stato e i Partiti, per cancellare ogni differenza tra Destra e Sinistra, anche sul piano della morale pubblica (“sono tutti corrotti”).

Anche il renzismo, con la “rottamazione”, la subordinazione del partito al governo, il leaderismo, il partito della nazione (non  di una parte sociale egemone che persegue gli interessi collettivi) si inserisce in questo contesto.

La politica fiscale del governo Renzi e la sua ricetta per uscire dalla crisi sono la testimonianza della subalternità, da parte del Centrosinistra, al pensiero unico affermatosi dopo l’89.

Mentre il recente G7 giapponese ha confermato che, di fronte a una economia globale sempre più rallentata, concentrare tutte le risorse sul rilancio dell’occupazione e degli investimenti è l’unica risposta adeguata, mentre l’Ocse sostiene che a un tasso  di incremento del commercio internazionale declinante e inferiore alla crescita mondiale bisogna opporre governi che spendano maggiormente (almeno 0,5 punti di Pil in più) in investimenti pubblici, specie in infrastrutture, anche finanziati in deficit, il premier Renzi sembra determinato a fare di una indiscriminata “riduzione delle tasse” il tratto caratterizzante la sua politica economica e sociale.

Egli rivendica a suo merito l’abolizione dell’Imu e della Tasi sulla prima casa, l’Irap sul costo del lavoro, l’Imu e l’Irap agricola, il superammortamento al 140%.

A ciò va aggiunta la nuova ipotesi di una ristrutturazione dell’Irpef su due/tre aliquote (che somiglia alla flat tax di Salvini e, prima ancora, di Tremonti).

Sull’insieme di questa problematica è opportuno soffermarsi a riflettere. Non si tratta solo di evidenziare che l’auspicabile riduzione delle tasse non deve andare a detrimento dei servizi pubblici e delle prestazioni del welfare (finanziati con le tasse, e già tanto taglieggiati e esposti a derive di privatizzazione, come in sanità) e che, anche per questa ragione, il modo migliore di praticarla è di destinarvi gli introiti provenienti da una lotta all’evasione fiscale ben più consistente e incisiva.

Non si tratta neppure di ricordare che gli stessi organismi internazionali, tra cui il Fmi e l’Ocse, da una parte insistono sullo spostamento del carico fiscale dai fattori produttivi ai patrimoni, dall’altra evidenziano il maggior moltiplicatore sul Pil della spesa pubblica diretta in investimenti rispetto alla manovra sulle entrate.

Qui c’è qualcosa di più profondo che va portato alla luce, uno snodo cruciale risalente al cuore del profilo culturale e ideale del centrosinistra e, dunque, della stessa discriminante Destra/Sinistra.

Il centrosinistra oggi deve reagire a una situazione verso cui per molti anni è stato subalterno, una situazione nella quale il duplice fondamentalismo (anti-Stato e anti-tasse), proprio del neoliberismo, ha causato la pressoché totale scomparsa dalla scena pubblica di un dibattito meditato sulla tassazione.

In conseguenza di ciò le scelte di politica fiscale spesso non sono sembrate più appartenere alla discriminante Destra/Sinistra: da entrambi i lati è apparso dominante un unico slogan, diminuire le tasse, senza che venisse posto il problema cruciale del limite sotto il quale la riduzione della tassazione può generare la devastazione dei servizi pubblici e la crisi del welfare e, al tempo stesso, depotenziare il ruolo dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni strategiche.

L’idea che le tasse siano un furto, un esproprio, un “mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, parole che abbondavano e abbondano nel lessico di Berlusconi e oggi di Salvini e perfino di vari esponenti dei 5stelle, è un’idea neoliberista, tipicamente di destra, sulla base della quale essa ha legittimato moralmente chi si sente autorizzato ad evaderle.

Invece, è di sinistra considerare le tasse un “contributo al bene comune” perché sono il mezzo con cui reperire le risorse necessarie a finanziare da un lato la redistribuzione egualitaria per le famiglie e per i cittadini, dall’altro strade, ferrovie, reti, scuole, ospedali, asili nido, riassetto idrogeologico, riqualificazione dei territori e delle città, Ricerca e Sviluppo e innovazione.

Tutte cose per le quali servono diretti interventi strutturali e piani straordinari di investimento pubblico per la creazione di lavoro.

Si tratta di riconoscere nell’operatore pubblico l’interprete fondamentale della “responsabilità collettiva”, per il cui esercizio è essenziale la raccolta per via fiscale di risorse adeguate, e di prendere le distanze dalla visione dello “Stato minimo” che sposta tutto sulla responsabilità individuale e lascia il singolo solo, una volta che le tasse gli siano state decurtate, a sbrogliarsela con le incombenze della vita. Riccardo Ugolino irigente Pd - 16.06.2016

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