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La Via Crucis di Antonio Gaglianone: «Bellezza di un Uomo vero» PDF Stampa E-mail
Scritto da don gianfranco belsito   

Qualche mese fa, subito dopo la Pasqua, ho voluto prendere l’iniziativa di installare la via crucis nell’aula liturgica della nostra parrocchia. I pannelli istallati, ad opera di Giuseppe La Fauci, spesso ritenuta una via crucis, in realtà illustrano il racconto del Kerygma

(nucleo centrale di tutto il Vangelo: nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo). Non appena informai di questa mia idea gli organismi di partecipazione parrocchiale, venni a conoscenza, che l’opera era già nelle disponibilità della parrocchia. Don Silvio, nel ricostruire la Chiesa, aveva tenuto conservato, con ordine, tutto il materiale della parrocchia in un magazzino privato di uno dei parrocchiani più attivi. Corsi subito a vedere le formelle che feci trasferire nella parrocchia con l’intento di istallarle nell’aula. E’ chiaro che la curiosità del sapere in quella fase ebbe la meglio insieme ai problemi legati all’istallazione. Le forme sono di una certa consistenza e volume (il materiale è di terra cotta) e richiedono dei sostegni adeguati al peso e alla sicurezza. Problemi, ancora, di stile artistico che si pone nel rispettare il progetto catechistico già installato. In quella prima fase perciò mi sono fatto mille domande come quella di capire anche chi fosse l’autore. Cominciai a chiedere e fui finalmente edotto da più persone che l’opera doveva essere certamente di Antonio Gaglianone. L’Avv. Perre mi chiese di fare da tramite con le figlie dell’Autore per allestire una mostra in estate e diedi, perciò, benevolmente ed entusiasticamente l’assenso. Certamente non ho mai avuto dubbi su quale fosse l’uso di quest’opera, nè sull’effettivo valore di essa. Nata dall’idea di Don Erminio e conservata con dedizione da don Silvio per un uso liturgico che non potè eseguire e completare il suo intento non certo perché non avesse compreso il significato della stessa, ma perché chiamato da sorella Morte. Al momento credo di aver trovato la soluzione stilisticamente adeguata e sicura per installarla proprio nell’aula liturgica della chiesa della marina. Qui mi sembra opportuno avviarne una presentazione articolata tre punti. In altra sede tenterò di pubblicare uno studio più adeguato al valore dell’opera con i caratteri della scientificità che merita. Nel primo presenterò le origini e il significato della via crucis nell’ambito della pietà popolare. Nel secondo mi soffermerò sul valore catechistico, antropologico e sociale dell’arte cristiana e infine, cercherò di cogliere alcuni tratti originali della scultura del nostro Gaglianone

Origine e significato della via crucis nell’ambito della pietà popolare

La via crucis è una forma di preghiera comunitaria e popolare le cui origini storiche sono rinvenibili fin dal 1300. Questo pio esercizio è nato in terra santa per riproporre plasticamente lo stesso itinerario di Gesù sul Golgota. Gli studiosi della materia sono arrivati a classificare diversi schemi di preghiera. Quindi si può capire la varietà dei momenti e delle diverse stazioni (le stazioni sono a volte raffigurate nelle chiese o anche in luoghi all’aperto e ricordano l’itinerario di Gesù che, in genere, parte dalla preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi fino alla morte e il Direttorio della Pietà Popolare ci ricorda che si può aggiungere sempre la quindicesima, ovvero la Risurrezione). Concretamente i cristiani che si affidano a questa preghiera compiono fisicamente un percorso – non sempre breve – che diventa metafora della vita intesa come cammino. Il credente qui si troverà a ripercorrere la strada del dolore che Cristo compì in quella terra santa e troverà modo di rimeditare sulle proprie vie segnate dal dolore. Troverà così conforto e consolazione nel sapersi compagno di Cristo in cammino. Questa forma di preghiera appartiene alla lunga tradizione della pietà popolare. La chiesa non sempre ha visto nella pietà dei semplici una modalità tutto al positivo. Oggi la posizione del Magistero ufficiale della chiesa è molto cambiata. L’approccio oramai è molto diverso dalla sensibilità comunque positiva che ebbe il Concilio Vaticano II. In quei documenti si guardava alla pietà popolare come ad una forma di preghiera del popolo che doveva essere accolta, valorizzata ma confrontata con la liturgia ufficiale della chiesa. L’intento, che doveva guidare i responsabili dell’azione pastorale, doveva essere quello di conservare una sana dottrina purificando e correggendo gli elementi della pietà popolare, omologandola a quella eletta a modello dalla liturgia ufficiale. Si capisce con una certa facilità che l’idea era quella di ritenerla una forma di preghiera valida ma per le anime semplici e poco acculturate, possiamo dire per le vecchiette. Anche l’approccio laico e strutturalista della sociologia ne faceva una ricerca limitata ai confini del sapere dei semplici. Popolare, dunque, come senso di una cultura non dotta e di seconda serie. Il teologo, poi, spesso si avvicinava a questi elementi di vera e genuina pietà con l’animo del correttore. Oggi la sensibilità ecclesiale e culturale è profondamente mutata. Intanto, popolare non viene più letto come contrapposto a dotto, ma come espressione di una vera realtà ecclesiale visitata dalla grazia di Dio e dallo Spirito Santo. Papa Francesco, nell’Evangelii Gaudium, ci ha ricordato che la pietà popolare più che essere azione del popolo è azione del popolo di Dio. Di un popolo guidato dallo Spirito Santo. Ci si rende conto che lo sforzo che qui compie un intero popolo sta nel leggere un fatto religioso con le categorie culturali del proprio contesto. Il genio popolare legge, talvolta, alcuni fatti biblici e altre addirittura creando a modo proprio e originale una fede incarnata nel tessuto sociale di un’intera comunità. Si da così luogo a quel fecondo rapporto tra fede e cultura che crea una multiformità di suoni e colori che non hanno nulla a che spartire con l’omologazione nel rischio dell’appiattimento. La via crucis non è dunque creazione artistica che può rimanere all’interno delle mura domestica o museali. Il suo fine è quello di aiutare l’occhio umano a leggere i fatti della fede per rileggersi in proprio e richiamare un modello di umanità toccato dalla fede. E’ preghiera del popolo ed opera artistica destinata ad un uso liturgico. In questo senso proprio a Belvedere vediamo come tutto il popolo partecipa ai fatti della passione di Cristo con genuinità e verità, tanto che alcuni studiosi hanno potuto dire che addirittura la Liturgia ufficiale della chiesa dovrebbe prendere ad esempio la pietà popolare come verità di un’azione sentita da tutto il popolo di Dio.

La funzione sociale e catechistica dell’opera d’arte

L’opera artistica oggi è spesso presa in considerazione più per il suo valore economico e finanziario e tante volte non ci lasciamo interpellare dalla sua valenza simbolica. Altre volte ne facciamo anche motivo di critica serrata ai responsabili della comunità ecclesiale perché poco attenti all’uso del denaro. Eppure, San Francesco d’Assisi, che in quanto ad attenzione verso i poveri, è quello che più si avvicina a Gesù Cristo, non badava a spese quanto si trattava di dedicare suppellettili e vasi sacri da destinare all’uso liturgico. A noi sfugge il valore simbolico dell’esistenza e ci limitiamo a delle analisi superficiali. In realtà però l’opera d’arte nella Chiesa è nata come didattica e come la più alta forma di carità verso i poveri. Le grandi tele e gli affreschi più belli sono nati perché i pastori d’anime, che di fatto erano i committenti (come don Erminio con Antonio Gaglianone in questo caso), volevano che il Vangelo arrivasse a toccare gli animi anche di chi non sapeva leggere. Opera destinata al popolo, all’uso liturgico ma ad iniziare dai più poveri. Oggi spesso l’opera d’arte viene vista come un fenomeno per esperti. La funzione didattica a cui l’opera d’arte è asservita non ne sminuisce il valore, anzi lo esalta però lo dispone ad una fruizione condivisa e popolare e non ad appannaggio di palati esperti e raffinati, quasi che l’arte debba leggersi solo una casta, ad élite. In questo caso, ad esempio, tutti possono leggere la linea di dolore che attraversa le creazioni. Non potrebbe essere diversamente, visto che il soggetto che si vuole rappresentare è la passione di Cristo. In questo, mi piace proprio dirlo, vi sono diversi elementi di originalità. Il primo è dato dal fatto che la bellezza sta proprio in questo: è la verità di un uomo che sceglie di andare incontro ad una morte ingiusta per amore. La bellezza vera perciò non è quella falsa dei cosmetici e o degli interventi correttivi della chirurgia. La bellezza è quella della verità di un uomo che non si sottrae al dolore per amore. Come quello di una madre che dà alla luce un figlio nelle doglie del parto. Quel dolore è capace di creare una bellezza indescrivibile. Qui il nostro autore, ripercorrendo la storia di Cristo, ci chiede di compiere il nostro viaggio guardando al dolore con occhi diversi. Il dolore non ci abbruttisce anzi, nel dolore si rivela, proprio come in una manifestazione, la verità della nostra umanità. L’umanità della madre che si dispone in quel sentiero per incrociare gli occhi del figlio. Quella madre che lo aveva partorito, lavato, asciugato ora deve seguirlo come maestro nella via del dolore e imparare da lui ad amare i suoi figli sebbene soffrendo.

Tratti originali della Via Crucis di Antonio Gaglianone

Lo spazio qui riservatomi non consente di commentare una ad una le diverse rappresentazioni che sono state allestite in questa mostra ma alcuni aspetti, assolutamente originali, voglio assolutamente riportarli alla vostra attenzione. Prima di tutto si capisce che vi sono almeno due mani: quella della committenza, don Erminio, e quella dell’artista. La mano di Don Erminio è chiaramente rinvenibile nella introduzione di tre stazioni che normalmente non sono inserite nello schema classico della Via Crucis: il “Bacio di Giuda”, l’”Ecce Homo” e “Oggi sarai con me in paradiso”. Queste tre stazioni hanno un sapore prettamente biblico e teologico. Le prime due fanno riferimento al mistero dell’iniquità che tenta in ogni caso di prevalere sul bene. La stazione del buon ladrone invece è tutta riferita al piano della Grazia che è smisurata da parte del Padre quando trova un cuore che si lascia convertire, sia pure in punto di morte. Il progetto della via crucis in XVII stazioni non è del tutto nuovo, è tipico invece della tradizione spagnola la sistemazione del cammino doloroso di Cristo in XVII momenti. Il liturgista Marini ci informa che proprio l’inizio della via crucis è spesso fluttuante. Per la verità si contano ben quaranta schemi di preghiera anche se quella classica è organizzata in quattordici stazioni. L’autore, che ci ha voluto consegnare un’opera assolutamente originale, ha voluto leggere la passione di Cristo con gli occhi di un artista calabrese innamorato della sua terra, del suo popolo, delle sue tradizioni e delle sue radici. La terra è il materiale utilizzato per dare seguito alle forme e non vi si può non leggere un ritorno alla visione dell’uomo adamitico, originato dalla terra. La bibbia ci ricorderebbe: “Dalla terra veniamo alla terra torniamo” (Gen 3,19). Dalla terra, nostra madre, deriva il pane, alimento e sostentamento. La terra è dunque nostra madre e chiede di essere coltivata e custodita con rispetto. La terra ricorda l’uomo calabrese dedito all’agricoltura che si impasta con i valori essenziali del nostro mondo e che grida ancora per la salvaguardia e tutela di tutto il creato. La terra per denunciare tutti gli abusi che creano danni ecologici irreversibili. Le forme di Cristo e dei suoi amici non rimandano ai lineamenti essenziali tipici degli orientali, anzi, a bene vedere, i volti arrotondati richiamano una certa calabresità a noi molto nota. I tratti degli uomini e delle donne segnati dal dolore non sono appariscenti o eclatanti ma discreti, ordinari sembra di sentire il loro silenzio vinto dal dramma di una quotidianità difficile, dolorosa. Si vede un Cristo con il volto di un calabrese, una madonna della nostra terra. L’arte è bella proprio perché semplice: è come se lo scultore ci stesse invitando ad incarnare nella nostra storia, nella nostra cultura, la vicenda di Cristo, della sua famiglia e dei suoi amici. Vi si potrà leggere ancora l’attualità dei calabresi sopraffatti dai soprusi e dal malaffare: altri Cristi che vengono condannati a morte dai diversi Giuda e Pilato di oggi (qui sono convinto che la nostra fantasia potrebbe continuare). Il percorso che Gaglianone propone non è solo quello di leggere la riflessione di un artista, ma è un invito a rileggersi in quel viaggio e non tanto come singolo ma come popolo in cammino, che non teme di accogliere responsabilmente il dolore come il tratto più originale della propria bellezza.

Conclusione

La creazione artistica è opera non solo umana e non si può non accorgersi e, quasi sentire, che qualcosa di inafferrabile e indescrivibile vi soggiace. Le forme create forse rimandano a dei dettagli che possono sembrare ai più come qualcosa di già visto e conosciuto, segnati come sono dal genio e dalla cultura dell’artista, tuttavia ci si rende conto di un Oltre che li trascende. Suggeriscono chiaramente un’appartenenza, al proprio dolore, alla propria cultura sebbene oltrepassino i confini del tempo e dello spazio. Una bellezza, quella di Gaglianone, che affascina e seduce mentre racconta la storia, per immagini, del dolore di Cristo e dunque anche del visitatore (qui lettore). Il racconto del nostro scultore evoca molto di più di quello che si vede: si racconta di Cristo, della sua sofferenza, della Mater dolorosa ma anche della nostra gente, delle tante sofferenze, dei nostri paesi, del valore della nostra bella terra calabrese. Cosa non può fare il genio di un artista creativo e originale quando si accosta ai fatti della fede. Sono dei segni chiari, inequivocabili, che si lasciano descrivere con immediatezza e tuttavia il rimando è a qualcosa di irraggiungibile e di più grande che ci afferra proprio perché ci contiene. Il viaggio che lo scultore propone ci fa passare per i sentieri sconosciuti della nostra terra ma insieme ci rimanda al cielo. Cielo e terra vengono tenuti insieme in un percorso spirituale per ogni uomo segnato dal dolore. La terra, che lo scultore ha plasmato con le sue mani, è diventata così porta verso il cielo per sentieri che non sono i nostri. Don Gianfranco Belsito Parroco della Parrocchia B. V. di Pompei in Belvedere M.mo - 01.09.2017 - (fonte http://www.diocesisanmarcoscalea.it)

ascolta l'intervista - contributo audio

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