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Stato sociale e reddito di cittadinanza: note di comparazione PDF Stampa E-mail
Scritto da walter nocito   

Le note di comparazione sul tema dello Stato sociale e del ‘reddito di cittadinanza’ che oggi si vogliono svolgere, in questa interessante Conferenza internazionale dell’AISC (Associazione Italiana di Studi Canadesi),

possono apparire un po’ eterodosse, e forse poco congruenti rispetto alla sessione della Giornata dedicata agli “Aspetti del federalismo canadese”. Possono apparire poco centrate sui temi e sui metodi del diritto pubblico comparato, e specificatamente del “diritto costituzionale comparato”.

Ciò per vari e variegati motivi, in sintesi per tre motivi.

1) Il primo e il principale dei quali è che il ‘reddito di cittadinanza’ non è affatto un istituto giuridico-istituzionale consolidato. Non è neanche un istituto “ad alta istituzionalizzazione” direbbe chi approcciasse il tema con gli occhiali della politica del diritto (come, su questo tema come su altri, ci ha insegnato a fare Stefano Rodotà nella sua lunga vita di ricerca e di impegno (che mi piace ricordare) un parte della quale è stata dedicata, da ultimo, allo ius exitentiae come tra poco diremo.

2) Secondariamente il ‘reddito di cittadinanza’, come istituto dello Stato sociale nel suo modello europeo come nel suo modello canadese, non è certamente un istituto normativamente ‘unitario’.

3) terzo motivo: il ‘reddito di cittadinanza’ non è previsto da alcun Testo costituzionale né nei Paesi europei, né nei Paesi del nord America. In particolare, non è un istituto giuridico-istituzionale previsto né nella Costituzione italiana, né in quella del Canada.

Sul caso italiano invero, per economia dei tempi non ci si può soffermare.

Si può solo evidenziare che un dibattito si è aperto da qualche anno anche in Dottrina (Tripodina e Ferrajoli in quella accademica, Bronzini e altri nella pubblicistica). E si può solo citare quanto, a livello istituzionale, in tema di ‘reddito di cittadinanza’  è oggi previsto - a livello nazionale - da una normativa in itinere che si affianca a quelle già in vigore di alcune Regioni italiane (come la Puglia, il Lazio o il Friuli) ma che oggi si può dare come non ancora del tutto completa.

Ciò in quanto la legge delega n. 33 del 2017 - istitutiva dei REI (“Reddito di inserimento”) -  non è stata integrata dai Decreti legislativi  ma solo da alcuni D.M. (l’ultimo del 16 marzo 2017 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze),  e sarà operativa a partire dal gennaio 2018, secondo un timing che i mass-media governativi non hanno ancoro ben diffuso probabilmente per non alimentare eccessive aspettative.

Similmente, nel Canada non esiste una normazione federale, ma esiste solo una sperimentazione avviata - nei mesi scorsi - nella Provincia dell’Ontario,   nel Canada centrale. Tale Provincia ha avviato  un Progetto pilota di “reddito base” (o basic income/ allocation universelle) in tre aree geografiche distinte, che sono la zona di Hamilton, Brantford e Brant County e la zona di Thunder Bay. Nell’ autunno 2017, il Progetto partirà nella terza area (Lindsay). Il Progetto pilota durerà tre anni, e le Autorità dell’Ontario verificheranno e monitoreranno gli effetti del Progetto su distinti campi quali:l’educazione; la salute fisica e i servizi di cura; il benessere mentale;la stabilità sociale e anche quella abitativa; le prospettive di lavoro.

Il Governo dell’Ontario, nel quadro di questo ‘Progetto pilota’, assegnerà in un anno fino ad un massimo di 16.989 dollari canadesi (circa 11.419mila euro) pro-capite, e fino ad un massimo di 24.027 dollari canadesi a coppia.

Per ogni dollaro in più che entra in famiglia (anche mono-nucleare) da lavoro o altre forme di reddito, le somme saranno ridotte fino a essere dimezzate (configurandosi così la misura di intervento, direbbero gli scienziati delle finanze, come “imposta negativa”!). Nel 2020, allo scadere del Progetto pilota, il Governo trarrà le conclusioni dall’esperimento e deciderà come proseguire la sua politica sociale.

La governatrice dell’Ontario, Kathleen Wynne, del Partito liberale canadese (lo stesso del primo ministro Justin Trudeau, di orientamento generale di centro-sinistra), su tale Progetto pilota ha posto una discreta enfasi nelle fasi di lancio e di comunicazione, sostenendo che"Il nostro obiettivo è chiaro, vogliamo capire in che modo un reddito minimo garantito possa migliorare la vita delle persone" ... e che "Vogliamo dire ai cittadini che il Governo è con loro, che 'l'Ontario è con loro". Obiettivo dichiarato quindi è la sicurezza sociale di fronte alla crisi, e di fronte alle minacce di crisi. In totale, il Governo regionale stanzierà sul Progetto pilota, 150 milioni di dollari canadesi.

Da notare due cose.

Prima cosa da notare. La matrice del Governo non è socialdemocratica, ma è liberale. Liberale similmente all’indirizzo governativo della Finlandia che è un caso ancor più significativo di sperimentazione di un nuvo basic income ed un caso sul quale è semplice trovare materiale proprio perché li il ‘reddito di base’ è un pezzo significativo dell’indirizzo governativo che punta esplicitamente ad un Good State che superi il Welfare State scandinavo già generoso peraltro (cfr. www.lastampa.it/2017/06/25/economia/il-pil-ormai-uno-strumento-superato-non-misura-crescita-e-diseguaglianze-AS9jue5HUFEjAxJqedZSWI/pagina.html).

Dunque, pur in presenza di una matrice liberale, in Canada come in Finlandia (che pare essere un pivot sulla materia) siamo in presenza di una politica sociale ‘welfaristica’ (anche se in Finlandia non si usa tale categoria, almeno nelle indicazioni da parte del Governo).

Seconda cosa da notare. Oltre che nel Canada, il ‘reddito di base’ sta facendo capolino nell’agenda di molti Governi e Parlamenti nel mondo, specie nelle Nazioni dove la morsa della povertà, e le disuguaglianze socio-economiche, sono più forti o sono ‘a rischio’ (ad esempio, in India e Brasile tra i grandi paesi, e in Uganda tra i meno significativi).

In un’audizione parlamentare sul DEF (Documento di economia e finanza), un alto dirigente dell’ ISTAT (Istituto nazionale di statistica), ha spiegato ai parlamentari che in Italia l’11,9% delle famiglie italiane, oltre 7 milioni di persone, è in “grave deprivazione materiale il che significa, traducendo dal gergo dell’Istat, che il 12% ad oggi vive nella “povertà più dura e disperata” (usando termini giornalistici). Come dovrebbe esser noto a chi si occupa di istituzioni e società, questo dato – con altri simili -  è stabile da alcuni anni e peggiora, molto, tra gli ‘over 65’ e tra i bambini (sulla povertà vedi M. Ruotolo, Sicurezza, dignità e lotta alla povertà, Editoriale scientifica, Napoli, 2012; e meglio ancora sul “ritorno dei poveri in senso materiale”, vedi le analisi e i dati in M. Revelli, Poveri noi, Torino, 2010).

L’Istat stima per l’Italia, che chi è a rischio di povertà o di esclusione sociale sia ad oggi il 28,7% degli italiani (oltre 17 milioni di persone). La situazione italiana non è un unicum in Europa, in quanto a scala continentale, le persone/i cittadini europei “a rischio povertà” sono il 23,7%. Se si utilizzano le stime della Commissione europea si può notare la presenza di picchi di ‘rischio povertà’ ed di ‘rischio esclusione’ in Serbia e in Bulgaria (41,3%), in Romania (37,4%) e in Grecia (35,7%), mentre minori rischi sono presenti in base ai dati socio-economici di Repubblica Ceca (14%), di Svezia (16%) e di Olanda (16,4%) che pure ha un sistemi di “basic income”.

Se dunque, sulla base dei tre motivi in apertura cennati, non sarebbe cosa molto semplice, né cosa ortodossa procedere a comparare l’Itala e qualche altro Paese europeo con l’Ontario, la considerazione di queste due ‘notazioni di contesto’ rendono utile qualche nota di comparazione.

La motivazione per la quale  almeno tentare di avviare una riflessione sul tema del basic income, dell’allocation universelle, del ‘reddito di base’ distinguibile (anzi da doversi metodologicamente distinguere nella nomenclatura italiana, a pena di equivoci), nei due ideal-tipi del “reddito minimo garantito” o del “reddito di cittadinanza” (Granaglia-Bolzoni, Il reddito di base, Ediesse-Roma, 2016, S. Toso, Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?, Bologna, 2016) risiede poi in alcune argomentazioni che chi vi parla – e molti come lui – devono al prof. Rodotà prima già citato. Gliele deve invero, sia sotto il profilo del diritto, sia sotto il profilo della politica del diritto (che prima si richiamava).

Anzitutto l’Autore cosentino, sia in un testo che oggi è con Repubblica e che si intitola Solidarietà, un’utopia necessaria (Laterza, Roma-Bari, 2014), sia in un testo destinato alla Rivista critica di diritto privato che però è rimasto solo in forma di Articolo sul web e su Micro-mega ma con un ben significativo titolo (“Diritti dei poveri, poveri diritti”), aveva sul punto sottolineato proprio come: “Per analizzare un tema come questo non è sufficiente, e può persino divenire distorcente, il criterio della comparazione tra sistemi giuridici operanti in contesti socio-economici assai diversi”.

Epperò, negli stessi testi il Rodotà si sofferma ampiamente sulla nozione di “ius existentiae”, ovvero al diritto all'esistenza”, ed anzi al tema del reddito di cittadinanza  e del suo rapporto con il principio di solidarietà ha dedicato molte delle ultime energie della sua ricerca e del suo impegno (“rete Bin”).

Già prima del 2013/2014, in varie sedi pubbliche, il prof. Rodotà ha molto insistito sul principio di solidarietà e sulla sua valenza ordinamentale, per cui al terzo dei motivi cennati in apertura si potrebbe ben rispondere sostenendo che pur non esistendo un base testuale in Costituzione, il ‘reddito di base’ sta assumendo, in molti ordinamenti (e in quello europeo in particolare, sulla base della “Carta dei diritti” e dell’indivisibilità dei diritti fondamentali in essa riconosciuti), le forme vive dell’istituto giuridico-istituzionale che ‘materializza’ il principio di solidarietà sociale, declinandolo come una forma di solidarietà ‘generale’ e non ‘parziale’.

Secondo la tesi che si può accogliere come valida al fine di rintracciare una base costituzionale indiretta per il reddito di cittadinanza di base come istituto della solidarietà sociale, nelle parole dello stesso Rodotà, “il principio di solidarietà è l’antidoto a un realismo rassegnato che non lascia speranze, e che non lascia diritti”. Ciò in quanto la solidarietà non è “una pretesa anacronistica”, non è una pretesa “inconsapevole di una società divenuta liquida, perennemente segnata dal rischio, dilatata nel globale”  ma  “è un principio nominato in molte costituzioni, invocato come regola nei rapporti sociali, al centro di un nuovo concetto di cittadinanza intesa come uguaglianza dei diritti che accompagnano la persona ovunque sia”. La solidarietà non è dunque un principio che appartiene “al tempo delle grandi ‘narrazioni’ cancellate dalla post-modernità”, ma “appartiene a una logica inclusiva, paritaria, irriducibile al profitto, che permette la costruzione di legami sociali  e  fraterni, poiché la solidarietà si congiunge con la fraternità”.

Se “nei tempi difficili è la forza delle cose a farne avvertire il bisogno ineliminabile … solo la presenza effettiva dei segni della solidarietà consente di continuare a definire ‘democratico’ un sistema politico”; mentre, conclude l’Autore, “l’esperienza storica ci mostra che, se diventano difficili i tempi per la solidarietà, lo diventano pure per la democrazia”.

Tutto ciò chiarito possiamo allora indicare per punti  alcuni risultati (sette almeno) di una prima riflessione e di alcune prime notazioni comparative sul tema del rapporto tra Stato sociale e Reddito di cittadinanza, nell’età dell’incertezza ed alla luce di un costituzionalismo tendenzialmente normativo che materializza  i principi di cui dispone a partire  dalla effettività del principio di solidarietà, e dai “segni della solidarietà” che possono assumere le vesti anche del basic income.

Prima risultato/notazione:il tema non si presta ad una analisi diacronica ma piuttosto ad una analisi sincronica che debba tener conto anzitutto dei “contesti socio-economici assai diversi”.

Seconda risultato/notazione: se il rilievo giuridico e dottrinale del tema può apparire debole stante l’assenza di basi testuali nelle Costituzioni, l’aggancio tra forme e fini della ‘solidarietà sociale ed economica’ (che nella Carta dei Diritti sono il mix tra uguaglianza e solidarietà nella cittadinanza europea, mentre nella Carta italiana sono quelli dell’art. 2) e le dinamiche dei valori costituzionali dell’universalismo e della dignità (art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu che indica «una esistenza conforme alla dignità umana») rende il tema non solo ammissibile per un evoluzione consapevole degli ordinamenti, ma anche scientificamente necessario e normativamente centrato.

Terza risultato/notazione: ai profili giuridico-ordinamentali della regolazione istituzionale del basic income come istituto che ‘materializza’ il principio di solidarietà (sociale, nazionale, europea), tutte le sperimentazioni dell’istituto affiancano un notevole apparato di analisi e strumentazioni in prevalenza politologico-economiche (con analisi descrittive e normative, sulle quali la letteratura internazionale è ben sviluppata, a differenza dei quella italiana che da poco ha solcato il tema).

Quarta notazione/risultato: nel gennaio 2017 si è discusso del basic income in termini di prospettiva anche al Davos Forum (Wef), in Svizzera (il Wef tutti sappiamo cosa sia). In quella sede, per il WEF ha esplicitato i vantaggi in termini di “sicurezza finanziaria”  un economista molto attivo (ma meno famoso di Piketty) che si chiama Scott Santens. Egli è il fondatore di Economic Security Project una ong impegnata nella diffusione dell’idea che la sicurezza finanziaria vada garantita a tutti; il suo intervento a gennaio al WEF ha avuto per titolo Why we should all have a basic income”, ed è leggibile sul sito ufficiale del Forum (cfr. https://www.weforum.org/agenda/2017/01/why-we-should-all-have-a-basic-income).

Ciò non vuol dire ovviamente che il basic income sia una opzione che troverà attuazione con certezza ovunque, ma solo che se ne può discutere laicamente, e che è considerata, in varie sedi, un’opzione tra le opzioni possibili (salvo giudizi politici che in questa sede non rilevano).

Quinta notazione/risultato: il Canada, e ancor più la Finlandia  che punta esplicitamente alla economia creativa, o “orange economy” (dove il tasto non è tanto la gig-economy bensì la share economy), costituiscono paradigma culturale e politico di una innovazione nel welfare che può basarsi su overlapping consensus cioè un consenso per intersezione rispetto a modelli valoriali e a dottrine molto diverse tra loro. Infatti la letteratura internazionale sul tema dell’ allocation universelle / basic income / reddito di base / reddito minimo universale (a partire da Parijs e Vanderborght), ha visto avviarsi un largo dibattito, fino a poco tempo fa poco noto in Italia, ma sul quale è possibile oggi riscontrare, almeno a livello teorico, un area di parziali convergenze raggiunte tra filosofi, economisti, politologi e politici pur distanti tra loro per orientamento.

La Sesta e ultima notazione/risultato: attiene al ‘caso italiano’ che, sul basic income, non è facilmente classificabile in quanto è anch’esso molto sperimentale (per una prima valutazione vedi E. Monticelli “I nuovi strumenti di lotta alla povertà in Italia: prime considerazioni sulla legge delega in materia di reddito di inclusione”, in Osservatorio Costituzionale, 2, 2017) .

Infatti, tra le sperimentazioni in essere nel mondo cui si faceva cenno prima, in Italia è ora in avvio il c.d. “Reddito di Inclusione (REI)”, istituito sulla base della delega contenuta nella legge n. 33 del 2017 («Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali» che prevede, tra l’altro, la definizione di un “Piano nazionale triennale per la lotta alla povertà e all’’esclusione”).

Il REI supera gli attuali sussidi nazionali  (quelli regionali?) e dovrebbe beneficiare, sulla base del DM del marzo 2017, circa 660 mila famiglie anche sulla base delle richieste portate avanti dall’Alleanza contro la povertà (che dal 2013 riunisce 35 organizzazioni tra sindacati, associazioni di volontariato, rappresentanti dei consumatori e fondazioni sociali).

Il REI – con una dote di avvio di 1,6 miliardi di euro - sostituisce il Sia e l'Asdi (assegno di disoccupazione) che scompaiono il primo gennaio 2018, e sarà in buona sostanza una “misura nazionale di contrasto alla povertà” comprendente un mix di erogazioni monetarie (‘soldi’) e ‘progetti personalizzati di inclusione sociale’. L'assegno verrà caricato dall'Inps sulla “Carta Rei” (familiare, non individuale), e per il 2018 sarà ricompreso tra un minimo di 188 euro e un massimo di 485 euro al mese. Il ‘tetto’ sarà fissato dall'importo dell'assegno sociale  e ciò implicherà che le famiglie numerose (più di 5 componenti) avranno una riduzione rispetto alla Sia attuale (che beneficia però meno famiglie, circa 220.000 anche se Inps e Ministero del Lavoro, ai primi di maggio 2017, hanno evidenziato che a quel momento, erano state accolte solo 59.000 domande delle 220.000 presentate).

Tanto specificato, se si comparano le esperienze tra loro (anche quella italiana con quella dell’Ontario)…  le osservazioni potrebbero essere più di una. Ma il comun denominatore, probabilmente, è la sperimentalità delle politiche di avvio di questo variegato istituito.

Per usare un termine consono al Canada citato spesso come “laboratorio costituzionale” il comun denominatore è la ‘laboratorialità’ delle legislazioni, e delle politiche di avvio, nel circuito implementativo delle stesse. In altri termini, il riferimento non è certamente all’idea di Roberto Vacca, Il diritto sperimentale, Bocca, Torino 1923 su un futurismo giuridico d’altri tempi,  ma al set di strumenti che la ‘analisi delle politiche pubbliche’ rende oggi disponibile agli Stati ed al legislatore che può e deve procedere all’analisi di impatto della legislazione (AIR, in questo come in altri campi) .

La Settima e ultima notazione/risultato: è, ai nostri fini, la più complicata e complessa (sono termini diversi “complicato” e “complesso”) in quanto apre ad altri discorsi.

Evidentemente, ha anche una caratura di opzione politica tra le possibili opzioni per uscire dalla crisi della Ue in termini sia istituzionali sia economici.

La notazione in parola  considera la Ue come un’organizzazione politica sovranazionale para-costituzionale per la quale la prospettiva, e il dibattito più sostanziale, al momento, dovrebbe essere la “europeizzazione delle misure di garanzia del reddito” ai fini del rinnovo della ‘Patto europeo’ (patto tra Stati, e patto tra Stati e cittadini).

Magari secondo alcuni, a partire da un “sussidio europeo di disoccupazione” (il cd. European Unemployment Benefits Scheme, in sigla EUBS) che è una idea definita a livello comunitario già nel 1975 quando fu avanzata dal Commissario francese Robert Marjolin, per poi scomparire dal dibattito europeo, per poi ricomparire dopo l’estati calde del 2011 e 2012 con il noto “Rapporto dei 4 Presidenti” seguito dal “Documento dei 5 Presidenti” del giugno 2015.

Il “sussidio europeo di disoccupazione” non è un basic income, perciò nel dibattito di frontiera (si spera anche nel nuovo Asse franco-tedesco) il tema della “europeizzazione delle misure di garanzia del reddito” dovrebbe esser coltivato ai vari livelli e nelle varie sedi competenti.

Comunque vada, qualunque sia la futura politica europea  di “europeizzazione delle misure di garanzia del reddito”, non potrà non avere molte caratteristiche di sperimentalità, per come sopra si è tentato di argomentare.

Grazie per l’attenzione.

Walter Nocito - Relazione al Colloque international “Le Canada en divenir: 150 ans de diversité culturelle et linguistique”, organizzato dall’Associazione Italiana di Studi Canadesi (Università della Calabria, 28 giugno-1 luglio 2017)

 

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