in ricordo di Marcinelle |
Scritto da franco perre | |||
Lunedì otto agosto, nel silenzio e nell’indifferenza totale, ricorreva il sessantesimo anniversario della tragedia di Marcinelle. Mi sia consentito, per un attimo, rompere il muro di silenzio e raccontare, a chi non sa, quanto avvenuto quell’otto agosto.
Marcinelle si trova in Belgio ed è una località all’interno del distretto minerario carbonifero di quel Paese.
L’otto agosto del 1956, a seguito di un corto circuito, all’interno della miniera si sviluppò un incendio che provocò la morte di duecentosessantanove operai.
In barba alle splendide parole della nostra Costituzione dove viene solennemente sancito il diritto al lavoro all’interno dei più generali diritti civili, coloro che si recavano in Belgio per lavorare in miniera firmavano un contratto che interessava non solo il datore di lavoro e il lavoratore, ma anche il Belgio e l’Italia.
Il contratto internazionale e individuale, al tempo stesso, prevedeva che il Belgio dava gratuitamente all’ Italia un certo quantitativo di carbone per ogni lavoratore italiano che si recava a lavorare nelle miniere di quel Paese.
Il lavoro si svolgeva in ambienti privi delle pur minime misure di sicurezza, non era prevista nessuna forma di previdenza o assistenza e , a fronte di un salario, vi era l’obbligo di lavorare in miniera per dieci ore al giorno e per almeno due anni. Solo, a compimento di detto periodo, era possibile dimettersi per andare a lavorare il fabbrica.
Eventuali dimissioni, prima del termine, impedivano di lavorare altrove ed erano punite con la condanna ad espiare in carcere il tempo necessario al compimento del biennio.
I nostri connazionali vivevano in baracche fatiscenti, adiacenti le miniere, prive delle pur minime condizioni igieniche sanitarie.
Migliaia di italiani, per lo più contadini, abbandonarono le campagne meridionali attratti dal miraggio di un lavoro che avrebbe loro assicurato un salario.
Non avevano minimamente idea di cosa li attendesse. Si racconta di un giovane napoletano che a milletrentanove metri di profondità chiedesse a un suo compagno più anziano per quale motivo il luogo fosse così buio da dovere essere illuminato artificialmente quando, aprendo una finestra, il problema poteva essere facilmente risolto.
Quel giovane non aveva neanche la consapevolezza di trovarsi a quella profondità e che quota mille trentanove sarebbe stata la sua tomba.
Avevo appena tredici anni e quella vicenda, che ebbe un eco mondiale e fu oggetto di discussione anche nella mia scuola, mi coinvolse emotivamente.
La sete di sapere portava la mia generazione a leggere di tutto, ad appassionarci ai romanzi di Cronin, agli sceneggiati televisivi “La Cittadelle” o “E le stelle stanno a guardare” mirabilmente interpretati da Alberto Lupo. Si aveva chiara la sensazione della immane tragedia che colpiva milioni di lavoratori e si capiva il dolore altrui.
Oggi non si parla più di Marcinelle; gli sceneggiati televisivi in bianco e nero della televisione di Stato sono sostituiti dalle macabre puntate a colori di “Gomorra”, di una Tv commerciale, finalizzata unicamente al profitto.
Non ci si commuove più di tanto alla notizia dell’ennesimo naufragio di migranti , della tragedia di centinaia di essere umani partiti dalle coste africane. In qualche modo, in fondo, siamo un pò contenti. Perché non restano nei loro Paesi invece di invadere le nostre città, urinare agli angoli delle nostre strade, rubare il lavoro ai nostri figli, rompere il “c” a noi che, tra l’altro, in un periodo di crisi economica e mancanza di lavoro dobbiamo spendere milioni per ospitarli in alberghi, e poi sono tutti terroristi che uccidono senza pietà è inevitabilmente il pensiero dominante. Abbiamo rimosso completamente il ricordo dei nostri emigranti; non sappiamo o fingiamo di non sapere che l’emigrazione coinvolse nel corso di un secolo circa trenta milioni di Italiani. Facciamo finta di non sapere che oggi, a distanza di cinquanta anni, le condizioni di vita e di lavoro degli emigranti raccoglitori di arance nella piana di Rosarno o di pomodori nell’Agro Nocerino/sarnese sono simili, se non peggiori, delle condizioni in cui lavoravano, vivevano e a volte morivano tanti nostri connazionali.
L’otto agosto del 1956 avevo tredici anni e quel giorno capii che il mondo in cui vivevo non mi piaceva, che era necessario impegnarsi per un mondo diverso. Quel giorno ebbi la consapevolezza che, attraverso la militanza politica, era necessario impegnarsi per la costruzione di un mondo migliore. Franco Perre - 10.08.2016
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