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Governo europeo della crisi e legittimazione della Ue PDF Stampa E-mail
Scritto da walter nocito   

Testo in versione ridotta di una Relazione al Convegno internazionale The European Economic Union:Economic, Social and Institutional Aspects Associazione Universitaria Studi Europei, Centro Congressi Artigianelli (Venezia, 17-19 Luglio 2015)

1. Introduzione.  Obiettivi e metodi.

Il tema evocato dal titolo del nostro intervento, che vuole essere di stimolo e di apertura al dibattito, è molto più esteso di quanto in questa sede si potrà sostenere ed in breve argomentare.

Il titolo rimanda al tema del governo europeo e del suo “modello costituzionale” (per quanto sia plausibile discorrerne rispetto ad un oggetto di osservazione che sfugge a dimensioni unitarie e riduttive qual è la Ue da tutti definito non a caso “oggetto complesso”).

Rimanda anche al delicato tema della legittimazione che lo stesso deve possedere per superare la crisi in atto, o quanto meno per dimostrare una legittimazione superiore a quella del passato.

Per tentare ciò articolerò il mio breve intervento in tre parti.

Una prima parte sulla legittimazione politico-costituzionale della quale la Ue ha avuto ed ha ancora bisogno in quanto la “politica dei piccoli passi” del passato,  il cd “metodo Monnet”,  era, già nelle testa dei padri europei, una soluzione solo temporanea in attesa di una unificazione politica federale. Di tale legittimazione  la Ue ne avrebbe avuto bisogno già a partire dalla fase “post-Maastricht” (anni 1992-2000). Ne avrebbe avuto ancor più bisogno nella fase qualificata come del momento costituzionale “della scrittura” (anni 2000-2004). Ma ne avrebbe bisogno ancor di più nella fase attuale, e cioè negli anni 2014-2015.

Ne avrebbe bisogno sia con riguardo alla “crisi greca” in corso per quanto attiene gli aspetti di natura fiscale, monetaria e finanziaria, sia con riguardo alla “crisi ucraina-orientale” per quanto attiene altri aspetti, tipo gli aspetti geopolitici, che però in questa sede non interessano, pur interessando questi dierettamente l’Italia, che è della Ue “la frontiera sud” (per come la vicenda libica ben dimostra, con il fenomeno migratorio in atto!).

Una seconda parte – pur in breve – dimostrerà in termini di analisi dottrinale, che un modello analitico e prescrittivo di natura “costituzionale” sul quale poter incardinare la sempre più crescente ‘integrazione europea’ finora non ci è stato, mentre ora ce ne sarebbe strenuo bisogno non solo per esigenze teorico-ricostruttive ma proprio per superare la crisi.

Una terza parte dimostrerà che il diritto europeo, oggi materialmente costituzionale, sta divenando, in forma crescente, un “diritto europeo dell’emergenza” che può mutare, o meglio ha già mautato, profondamente, il “quadro” comunitario che si era cercato di rafforzare a partire del 2000 con la Carta di Nizza e poi con la Convenzione europea.

Le tre parti dunque, mirano tutte a sviluppare, sia pure solo per rapidi cenni, alcuni argomenti utili al dibattito del nostro Panel sul “Il futuro dell’Unione Europea” e al dibattito delle altre giornate di questo Convegno internazionale, avendo come focus propprio il tema della “Integrazione giuridico-politica” delle comunità statuali europee e dei popoli europei (della Uem a 19 in particolare, più che della Ue a 29).

La seconda e terza parte mirano a questo obiettivo utilizzando le categorie del diritto costituzionale, ben consapevoli che gli sforzi dottrinali, in ragione della crisi, sono molto ‘insicuri’, produttivi di dubbi più che di certezze, in quanto se già prima della crisi erano alquanto interlocutore le nozioni di integrazione, di sovranità condivisa, di contro-limiti ecc..,  dopo la crisi sforzi analitici della dottrina hanno dovuto, in parte o in larga parte, mutare la lettura dei fatti (quelli avvenuti o quelli mancati), l’utilizzo delle categorie analitiche e la stessa prospettazione di soluzioni istituzionali per uscire dalla crisi.

2. Prima Parte. La “politica dei piccoli passi” e la legittimazione politico-costituzionale della Ue

In riferimento alla prima parte, anzitutto, giova sottolineare come il momento di gravissima difficoltà che attraversa il processo di integrazione politico europea (fin dai referenda francese e,  poi irlandese, sui Trattati quasi-costituzionali del 2004 e del 2009) non consente di fare previsioni sui prossimi sviluppi europei…

Ciò deve essere tanto più chiaro, e più vero, con riguardo alla ultima cd. “crisi greca”, crisi che costituisce una ‘fatto’ non tanto congiunturale quanto strutturale della crisi europea in atto dal 2004 in poi e cioè dall’anno in cui mancò il coraggio alla Convenzione europea per proporre una vera integrazione politico-costituzionale.

In tale direzione si può condividere quanto il MFE ha di recente scritto a commento del referendum greco del 5 luglio 2015 e cioè che, in questi frangenti di crisi, “i leader europei hanno moltiplicato riunioni al vertice a geometria variabile dimostrando la loro impotenza e mancanza di visione (...) mentre  “la Grecia ha costituito il pretesto della crisi dell'Euro, ma non ne è stata tuttavia la causa”, causa che va ricercata invece nel fatto che l’Eurozona “è un'unione monetaria ma non un’Unione economica e fiscale di Stati che hanno differenti caratteristiche strutturali” …

Può ugualmente condividersi la valutazione per la quale “La crisi dell’Eurozona non è monetaria, non è iniziata con la crisi greca ma molto prima, quando è stata creata un'unione monetaria senza Unione economica e in mancanza del vincolo temporale dell’unione politica”. Un po’ meno condivisibile,  potrebbe essere invece la valutazione per la quale “E’ evidente che una grave crisi politica e sociale travolgerà non solo i paesi che hanno accettato i vincoli dell’Unione economica e monetaria ma tutta l’Unione europea se essa non deciderà di rafforzare la sua integrazione politica a partire dagli stati e dai popoli che lo vorranno e creando un sistema inedito di membri associati a un nucleo federale per salvaguardare il mercato interno e il patrimonio delle realizzazioni comunitarie”.

Prima di procedere ad esprimersi sulla legittimazione della Ue giova ora ricordare  come la direzione del processo di integrazione europea (già tracciata da Schuman nel 1950) era fin dall’origine prospettata come un approdo da raggiungere dopo aver creato le condizioni oggettive per una «solidarietà di fatto».

Nella stessa direzione suggerita da Schuman il cd “metodo Monnet” ha poi costruito, nel farsi tumultuoso della storia, la cd. “strategia dei piccoli passi” o ‘del fatto compiuto’ per la quale l’integrazione giuridico-politica (o poi  la finalistica Unione europea) era l’obiettivo finale da perseguire, anche se il suo raggiungimento sarebbe stato possibile solo grazie all’impulso dato dall’azione concreta in campo economico, “piccolo passo dopo piccolo passo”. La conseguenza di questa impostazione era che la finalità ultima (la costruzione dell’unione politica) non era negata, ma i singoli passi compiuti in tale direzione non dovevano essere esplicitamente presentati come tali, bensì come semplici attuazioni obbligate di ‘oggettive’ esigenze di progresso economico. La meta  doveva essere raggiunta, dunque, “per forza d’inerzia”, attraverso un percorso “indiretto”.

Tale strategia ha avuto nella storia grandi meriti, dal momento che con la “politica dei piccoli passi” sono stati ottenuti risultati inimmaginabili attraverso altre vie. Epperò chiunque ha a cuore oggi la “causa europeista” non deve mai dimenticare che quella “politica dei piccoli passi” era stata immaginata già dai fondatori come una soluzione temporanea, che non solo non escludeva, ma addirittura auspicava il raggiungimento di esiti ben più solidi, in termini politici e perciò costituzionali, della sola e riduttiva comunanza di interessi economici degli Stati.

In altre termini, non deve mai dimenticarsi che il fine dell’integrazione politica-costituzionale, già per i fondatori, non era incompatibile con il mezzo dell’integrazione economica. Vi era dunque un rapporto di mezzi a fine che seppur velato e indiretto, non era affatto ignoto ai “padri fondatori” e agli europeisti più sensibili.

Alla luce di tanti argomenti che ora non possiamo ripercorre, oggi, quella strategia non appare più appagante e non appare affatto adeguata al momento storico che stiamo vivendo. Già negli anni 2000 gli insuccessi dei tentativi di ottenere, in via referendaria, un consenso popolare all’approfondimento del vincolo europeo hanno dimostrato il livello di disaffezione nei confronti delle istituzioni europee.

E’ da da chiedersi però se sia effettivamente provato che tali insuccessi al di là della disaffezione abbiano dimostrato, e dimostrino, un spirito nel fondo effettivamente anti-europeista. Ovvio che i dati elettorali contano ma non è questa la sede per valutare i pesi delle forze asseritamente anti-sistema che sono state premiate dalle elezioni europee del maggio 2014.

Ad avviso di chi scrive, infatti, è probabile che le pronunce popolari in via referendaria finora svolte (tipo quella francese, irlandese e da ultimo greca) con esiti negativi per la attuale Ue si debbano spiegare non con la richiesta di “meno Europa”, ma con quella di una “Europa diversa”,  se non proprio di “maggiore Europa”.

Una “Europa diversa”,  che sia, come è stato osservato prima della crisi del 2009, “meno freddamente economica e più saldamente politica”; e ciò perché: “anche se non si dedicano agli studi di teoria politica o di diritto costituzionale, i cittadini europei avvertono perfettamente il rischio di un eccesso di espropriazione delle loro prerogative, appunto, di cittadini. La riconciliazione tra l’Europa e la sovranità popolare, allora, sembra dover passare per l’abbandono delle vecchie, consolidate, strategie e per una più coraggiosa scelta innovativa. La questione della natura politica del vincolo europeo, in definitiva, non può più essere elusa, né è più possibile sottrarre ai cittadini dei singoli Stati dell’Unione la decisione sulla propria sorte”. (cfr. Luciani, , “Integrazione europea, sovranità statale e sovranità popolare. Norme e idee”, in Istituto Enciclopedia  Italiana,  XXI secolo. Norme e idee. Vol I, 2009, p. 338 ss. (anche http://www.treccani.it/enciclopedia/integrazione-europea-sovranita-statale-e-sovranita-popolare (XXI Secolo)).

2. Seconda Parte. Necessarietà di un modello per poter superare la crisi

In riferimento alla seconda parte della nostra comunicazione, il processo di integrazione europea si è svolto in assenza un modello costituzionale di riferimento e, fino agli anni ’90, in assenza di un pur minima matrice costituzionale. Dai primi anni ’90 in poi il processo di integrazione ha invece originato  un vasto dibattito (politico e dottrinale) su quale sia la matrice del processo di integrazione in termini di ‘teoria costituzionale’. Tale matrice era infatti, ed è ancora, di primario interesse in quanto da essa se ne può (e se faceva) derivare la natura della Ue come “comunità di diritto” che ‘sfonda’ il regime della regolazione sovranazionale, e internazionale, per entrare nell’ambito categoriale del diritto costituzionale dei poteri e delle libertà. E cioè del diritto costituzionale della ‘limitazione dei poteri’ e della ‘garanzia delle libertà individuali’.

Su questo punto, senza indugiare a lungo, basti in questa sede ricordare come negli anni ’90 si sia imposto  il tema  della ‘costituzione europea’ come connettivo delle tradizioni costituzionali comuni tra i Paesi europei, e come prodotto del perseguito impegno sovranazionale degli Stati europei verso “una sempre crescente integrazione”. In termini sia di allargamento sia di approfondimento del processo.

La costruzione di questa cornice costituzionale poteva però transitare da uno schema di integrazione sovranazionale verso uno schema di integrazione costituzionale solo a costo di una forzatura del senso di quella classica teorica che più di tutte aveva con precisione descritto e prescritto la categoria dommatica della integrazione costituzionale nell’ordinamento giuridico dello Stato, e cioè la teorica elaborata da Rudolf Smend, nel 1928, in Germania. Quest’Autore, uno dei Maestri della scienza costituzionale, aveva delineato le linee essenziali del concetto di integrazione costituzionale in un opera dal titolo Costituzione e diritto costituzionale. In tale opera, lo Smend affermava che lo Stato non è un «tutto in istato di quiete», dal quale promanano leggi, atti amministrativi, sentenze oppure qualche altra “manifestazione di vita”, ma è qualcosa che viene a esistenza proprio attraverso e per il tramite di tali manifestazioni di vita. È qualcosa, dunque, che esiste e vive solamente in questo processo di continuo rinnovamento. Lo Stato, secondo la teorica di Smend, è null’altro che l’integrazione attraverso la quale, e grazie alla quale, esso si costituisce in quanto Stato.

Nel 1995 Ingolf Pernice (in un saggi titolato Carl Schmitt, Rudolf Smend und die europäische Integration) utilizzando la dottrina smendiana -  sostiene che i Trattati europei sarebbero un ottimo esempio di “costituzione fondativa di una più vasta comunità di diritto”. Sostiene poi che le stesse categorie smendiane conforterebbero questa affermazione, perché in Smend non vi sarebbe collegamento diretto tra la costituzione e lo Stato, e vi sarebbe tanto Stato quanto mano a mano se ne costruisce attraverso la costituzione. Sulla base di negata equivalenza Stato-Costituzione, lo ‘sfondamento’  della Ue nell’ambito della regolazione costituzionale ha creato la illusione di un momento di unificazione costituzionale per la quale le legalità sovranazionali e quelle costituzionali sarebbero state in tutto e per tutto equivalenti e sovrapponibili. Sulla base di tali letture si è poi proceduto a distinguere tra la categoria dell’integrazione originaria nello Stato (rivolta agli individui, ai gruppi e alle forze sociali), e quella in qualche modo derivata dell’integrazione nell’Unione (rivolta agli Stati membri e solo eventualmente e funzionalmente ai singoli ed alle componenti sociali). Entrambe sarebbero collocabili, nella loro matrice, come fenomeni costituzionali tutt’interni al diritto costituzionale nazionale ed europeo. La lettura dell’integrazione europea come processo in forza del quale l’Unione Europea sarebbe in quegli anni (nel decennio 1995-2005) divenuta una “comunità di diritto” degli Stati destinata a divenire una “comunità politica” di popoli si è dunque poggiata su questa precisa teorica di Pernice.

La lettura in parola si è di seguito sempre più poggiata sulle teoriche dei diritti fondamentali come garanzie espresse delle tradizioni costituzionali comuni, e dunqe sulle grandi speranze sull’Europa dei diritti, avviatesi nel 2000 con l’approvazione della “Carta di Nizza” destinata a essere incorporata nei Trattati europei, per come poi è avvenuto in forza dei noti eventi storici del 2004 e  del 2008.

Sul significato passato ed attuale tali speranze verso l’Europa dei diritti non mi soffermerei perché sono a tutti note. Per lo stesso motivo non mi soffermerei sulla questione (affrontata nel noto “Consiglio europeo di Laeken” del 2003 e poi negli anni “della scrittura” 2004-2006) circa l’anima costituzionale del “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Unione europea” (approvato il 18 giugno 2004 ma poi arenatosi per le note vicende francesi e olandesi) e se lo stesso abbia avuto natura di un Trattato internazionale o di una Costituzione (maschi o femmina secondo la plastica prospettazione di Giuliano Amato). Analogamente non è ora richiamabile nenche il tema delle posizioni che hanno contestato e superato la cd. “no demos” tesi, che si è sviluppata in Germania, ma si è poi estesa in altri paesi, ed anche in Italia dove però non ha interessato che pochi costituzionalisti, animando in tutta Europa il dibattito tra “euro-scettici” e “euro-entusiasti”.

Tanto richiamato, è ora possibile esplicitare come, superata con la crisi l’esigenza di avere una modellazione costituzionale tout court, permanga l’esigenza che il volontarismo europeista disponga di altri modelli per la analisi e l’azione dottrinale, culturale e politica.

In tale direzione è possibile richiamare la possibilità (mancata) di avere verso il processo di integrazione europea un approccio più ‘realistico’. Tale approccio sarebbe potuto consistere (e consisterebbe ancora) nel sostenere, in alternativa alla prospettiva smendiana, un’altra prospettiva, di natura più politica, proposta in letteratura dal politologo americano Amitai Etzioni in un saggio del 1965 sulla “Unificazione politica” (nell’opera Unificazione politica, Milano, Etas Kompass, 1969).

Secondo questa prospettiva sarebbe “politica” quella comunità di individui, di gruppi o di Stati che disporrebbe dei seguenti tre tipi di integrazione:  a) un esercizio di un efficiente controllo sull’uso della forza; b) una struttura decisionale centrale capace di determinare in misura significativa la distribuzione delle risorse, dei sacrifici e dei vantaggi in tutta la comunità; c) una pur minima capacità di porsi come fattore di identificazione politica per una (larga) maggioranza dei cittadini politicamente attivi o consapevoli.

Utilizzando i vincoli di tale prospettiva realistica sarebbe stato possibile valutare come l’Ue non sia affatto stata una vera ‘comunità politica’ già a partire da Masstricht (1992) e  non lo sia affatto stata anche negli ultimi sviluppi della crisi del debito. In questi sviluppi, infatti, l’Ue si è tenuta ben lontana dall’essere una comunità politica nel senso proprio della definizione che si è appena richiamata con riferimento in particolare  ai punti b) e c).

Se sotto il profilo della modellazione questa prospettiva sarebbe stata meno fascinosa e meno raffinata di quella proposta da Pernice, si potrebbe forse in questa sede sostenere che i tanti cortocircuiti del processo integrativo europeo avvenuti a partire dal fallimento della Convenzione del 2003 non si sarebberero avverati nella loro ineludibile significatività (e da ultimo nella loro evidente plasticità).

3. Terza Parte. Il  “diritto europeo dell’emergenza” e le deboli soluzioni per il futuro della Unione

Giunti alla terza parte della nostra comunicazione, si può passare a temi e valutazioni di natura meno accademica venedo a richiamare la cruda attualità e qualcuna delle possibile prospettive per il futuro europeo, stretto sempre – per come recita il titolo di un bel libro recente - “tra sogno europeo e incubo” (G. Allegri e G.Bronzini, Sogno europeo o incubo?, Fazi editore, Roma,  2014).

In quasta direzione è possibile ora segnalare come i ‘fatti costituzionali’ che attengono al titolo del nostro intervento siano sostanzialmente di due tipi: quelli svoltisi nel triennio 2010-2913 e quelli in corso di svolgimento a tutt’oggi.

I primi hanno costituito un vero e proprio “diritto europeo dell’emergenza”, mentre i secondi stanno segnando una svolta, presumibilmente di portata storica, per la quale il processo integrativo politico-costituzionale europeo può evolvere nel senso di una accelerazione verso una parziale forma di disintegrazione dell’Europa, ovvero verso quello che il MFE ha chiamato un federalismo “di necessità” … che “creerà una vera Europa politica e sociale, le cui istituzioni garantiranno un giusto equilibrio fra le politiche monetarie e di bilancio, la stimolazione dell’attività economica e la coesione sociale rafforzata … da realizzarsi attraverso un rafforzamento della integrazione politica degli stati e dei popoli “che lo vorranno” e  attraverso “un sistema inedito di membri associati a un nucleo federale per salvaguardare il mercato interno e il patrimonio delle realizzazioni comunitarie”.

In estrema sintesi sui primi ‘fatti costituzionali’ può asserirsi come il diritto europeo dell’emergenza degli ultimi anni (con il Six Pack, il Patto Euro plus, il Semestre europeo, i Fondi salva-stati e infine con il “Fiscal compact) sia insufficiente per approntare adeguate soluzioni per il “futuro della Unione”.

Sempre sintesi, sui secondi ‘fatti costituzionali’, può asserirsi come oltre la tragica vicenda greca, i leader europei nelle continue loro riunioni al vertice a geometria variabile stiano ad oggi ampiamente dimostrando una, per chi scrive, preoccupante mancanza di visione.

Tale debolezza delle leadership nazionali ed europee, la loro mancanza di visione, può essere osservata attraverso i due processi di sviluppo ad oggi sul tappeto, o sul “tavolo da gioco”, e cioè:  il cd. “Documento dei 5 Presidenti”, dal titolo Completing Europe's Economic and Monetary Union di fine giugno 2015 e il cd. “Piano Juncker”.

Quest’ultimo è stato definito da alcuni, con malcelata speranza, come un primo “Piano crescita” (“European Growth Compact”), e al momento prevede la creazione di un nuovo fondo europeo per gli investimenti strategici (EFSI) ed il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (BEI), istituzione che dagli anni ’60 finanzia progetti a lungo termine indirizzati dalle istituzioni europee. L’EFSI dispone di un capitale iniziale di 21 miliardi di euro (ma ad oggi solo 13 miliardi sarebbero effettivi), ma dovrebbe innescare, nei piani del Presidente della Commissione, una massa (‘presunta’) di 315 miliardi di euro di investimenti in tutti i paesi europei; tali investimenti sarebbero realizzati  in funzione anti-ciciclica o meglio di superamento  della crisi, con nuovi progetti di investimento pubblici e misti pubblico-privati.

Sul “Documento dei 5 Presidenti” può osservarsi che se la necessità era, ed è, quella della costruzione di una dimensione (para)-federale a livello europeo-continentale, l’obiettivo è ben lontano dall’essere perseguto e raggiunto attraverso tale “road map”. È ben vero che il Documento esordisce affermando come “La seconda potenza economica del mondo non può essere retta da una semplice cooperazione fondata su un insieme di regole” (e poi che … dovremo passare da un sistema di regole e linee direttive per le politiche economiche nazionali ad un regime di accentuata condivisione di sovranità attraverso istituzioni comuni, che già esistono e possono assumere questo compito”).

Ma è anche vero quanto, a partire dalla giusta diagnosi del Documento, si è sul punto notato e cioè che sembrerebbe la premessa di un programma operativo per “congiungere regole a istituzioni”, e “per fare emergere un ‘ordinamento’ dal disordine di procedure e strutture, barricate affannosamente contro la crisi” Ma il seguito “non è  questo”, in quanto il Documento “non tenta neppure il disegno di un riassetto, pur affermando che ‘non sono necessari nuovi patti ma progressi concreti sulla base del diritto europeo’. Si accascia, infatti, proprio su proposte di ‘pulizia’ e completamento di regole e procedure. Come se la Zona-euro potesse continuare a vivere, qui ed ora, solo su di esse. Senza, cioè, un potere di governo politico che ne assicuri la stabilità con funzioni diverse da quelle del governo monetario” (così A. Manzella, Un patto per l’Europa, in La Repubblica, 3 luglio 2015).

In conclusione nella crisi europea di questi ultimi anni, crisi che è finanziaria ma è non meno politico-cosrituzionale, ciò che è veramente oggi in discussione “è il telos del processo integrativo europeo” e cioè il progetto costituzionale di una Unione sempre più stretta dei popoli europei.

È quindi certamente vero quanto validi studiosi hanno ribadito sostenendo che ciò che è veramente in discussione oggi nella Ue non è solo l’integrazione monetaria, “la più eclatante dal punto di vista materiale e simbolico” (e quindi la moneta unica dell’euro, che pure corre dei rischi!), ma anche “l’integrazione geografica (la politica dell’allargamento), l’integrazione economico-giuridica (l’approfondimento), l’integrazione sociale (il ‘modello sociale europeo’)” (cfr. A. Cantaro (a cura di), Quo vadis Europa? Stabilità e crescita nell’ordinamento europeo, Urbino, 2015 si puo leggere il Volume qui: http://ojs.uniurb.it/index.php/cgdv/issue/view/87).

In altri termini e per concludere, se era certamente vero che una costituzione europea e non un semplice paradigma costituzionale era molto opportuna negli “anni felici” del periodo 1999-2004 al fine di superare la contraddizione in cui versava allora l’Unione Europea, fra Stati nazionali legittimi ma svuotati di competenze e Istituzioni comunitarie cariche di competenze ma prive di legittimità, oggi quella opportunità è divenuta una necessarietà stringente. Necessarietà stringente non tanto e non solo rispetto al fine di consentire “progressi concreti sulla base del diritto europeo” per come i 5 Presidenti sostengono nel loro Documento, ma stringente rispetto al fine di salvare dal fallimento progressivo lo stesso processo di integrazione che versa in condizioni di pericolosa crisi come gli eventi e le paure di quest’estate ancora una volta dimostrano.

Per concludere, con parole forse crude ma realiste, per salvare il processo stesso di integrazione dalla profonda “crisi esistenziale” (utilizzando la parola di Edgar Morin) in cui versa oggi l’Europa, e in cui versano, diremo noi, le sempre più ottuse élites politiche del vecchio Continente. Al limite per salvare il processo stesso di integrazione dalla lenta disintegrazione cui può essere destinato dalla “matrigna natura” di leopardiana memoria. Walter Nocito Università della Calabria - luglio 2015

Sito convegno: www.ause.eu/it/associazione-ause/the-european-economic-union-economic-social-and-institutional-aspects.html

 

 

 

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