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per la Festa di Liberazione a Belvedere e Bonifati PDF Stampa E-mail
Scritto da salvatore fabiano   

Intervento pronunciato da Salvatore Fabiano quale rappresentante della sezione ANPI del Tirreno cosentino. E’ frutto del suo lavoro di ricerca sui confinati politici antifascisti a Belvedere.

Confinati politici a Belvedere

Il 31 ottobre 1926 Mussolini subì un attentato a Bologna. Un giovane anarchico, Anteo Zamboni, durante la celebrazione del quarto anniversario della marcia su Roma, tentò di uccidere il duce senza riuscirvi. Fu catturato e la folla lo linciò fino alla morte. Il fatto diede lo spunto al regime fascista per l’emanazione di “nuove leggi sulla pubblica sicurezza”, con R.D. 1648 del 6.11.1926, che introduceva essenzialmente la misura del confino politico per gli oppositori. Bastava scrivere un articolo di giornale contro la politica del governo, partecipare ad una riunione politica “non autorizzata” o semplicemente urlare uno slogan contro Mussolini in piazza per essere processati ed inviati per qualche tempo in luoghi lontani dal proprio paese. L’accusa poteva scaturire anche da fatti banali e sostenuta da chiunque avesse credito presso il regime. Una nuova caccia alle streghe come ai tempi in cui la Chiesa Cattolica la praticava con la Santa Inquisizione.

Nel ventennio furono molti coloro che conobbero il confino ed erano per lo più intellettuali ai quali bisognava impedire di vivere nel loro mondo, mettendo a disagio economico ed affettivo la vita delle loro famiglie. I “coraggiosi fascisti” avevano paura di chiunque fosse in grado di pensare e di agire.

Tutta la Calabria fu invasa da confinati antifascisti e fu persino utilizzata, per un breve periodo, persino per emarginare Amerigo Dumini, accusato dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Fu a Longobucco dal 21 luglio 1932 all’ottobre dello stesso anno. Pare che vi fossero trenta poliziotti a scortarlo per evitare che potesse comunicare con altri. Veniva a tutti indicato come “il pazzo” per poterne minare la credibilità.

Anche Belvedere registrò la presenza di alcuni confinati. Le notizie in merito agli antifascisti inviati nel nostro comune sono scarse, ma ho provato, attraverso personali ricerche, a ricostruirne le loro vicende.

Ai confinati veniva corrisposto un sussidio detto “la mazzetta”, che variava da 5 a 10 lire al giorno, ed un’indennità di alloggio pari a lire 1,66. Il tutto era insufficiente per sopravvivere ed essi, con la benevolenza delle popolazioni locali, svolgevano piccole attività per avere qualche compenso in natura. Venivano controllati quotidianamente dai carabinieri dai quali bisognava presentarsi ogni mattina alle 9. La loro possibilità di uscita dalla dimora era in inverno dalle 7 alle 20 e d’estate dalle 6 alle 21. La milizia controllava la presenza in casa durante la notte anche con incursioni di disturbo. Il loro arrivo era un evento pubblico in quanto giungevano con mezzi di fortuna nella piazza del Municipio, con le manette ai polsi e scortati dai carabinieri. Erano trattati come comuni criminali. Provenivano dalla vicina stazione ferroviaria ed il primo impatto con la comunità locale era la consegna al segretario comunale. Successivamente c’era la presentazione al podestà ed al maresciallo dei carabinieri. In attesa di una sistemazione in piccoli alloggi, erano a volte ospitati nelle celle della caserma. Veniva loro consegnata la “carta di permanenza” che dovevano obbligatoriamente portare sempre in tasca. La corrispondenza, sia in arrivo che in partenza, subiva un ferreo controllo con eventuale censura. A volte essi riuscivano ad aggirare l’ostacolo facendola imbucare clandestinamente da ragazzini nei paesi vicini, ma era alquanto difficile che potessero farlo i confinati a Belvedere centro.

I fatti che narro in questi appunti li ho rilevati da fonti varie: libri, siti internet dell’Anpi e del Ministero della Difesa, ma essenzialmente dalla trasmissione orale di testimoni di quel tempo. Il più importante informatore è senz’altro Enrico Siecola che mi ha fornito foto, lettere e narrazioni che ho poi potuto puntualmente verificare. Enrico ha rappresentato una fonte importante per queste ed altre memorie su ciò che è stato il “mio borgo antico” durante la sua adolescenza. Anche Nino Rogati mi ha fornito notizie utili per ricostruire alcuni episodi ed indizi per nomi da ricercare. Erano entrambi molto giovani allora, ma rammentavano tante situazioni  dimostratisi reali alla luce dei riscontri.

Tanti i confinati in Calabria, molti dei quali in provincia di Cosenza. La maggior presenza di antifascisti colpiti dalla misura restrittiva l’ha registrata il comune di Acri con almeno 44 persone. Seguono poi San Giovanni in Fiore, Castrovillari, Luzzi e Bisignano, Bocchigliero e Longobucco. Sulla costa tirrenica Fuscaldo ne ospitò 14 e Belvedere Marittimo 11. Alcuni furono inviati a Paola, Cetraro, Fiumefreddo, Praia, Scalea, San Lucido ed Amantea.

I confinati che Belvedere ospitò dimorarono in genere nel centro storico per poter essere meglio controllati dalla milizia fascista. Si tratta di Lorenzo Capponi, Luigi Moraldo, Fausto Fortunato Avanzati, Marcello Marrone, Domenico Dettore, Lucio Mario Luzzatto e Romolo Cani. Vi soggiornarono  inoltre Nino Woditzka, tra i fondatori del Partito D’azione, e sua moglie, Rosa Burich (detta Rosina). Nino viveva in genere tra Rende ed il Sanatorio di Cosenza, mentre la moglie, stabilmente a Belvedere, riceveva periodicamente visite autorizzate del marito. Caduto il fascismo, Nino restò per qualche tempo a Cosenza; fu leader del Partito d’Azione e direttore del periodico “L’Emancipazione”. Belvedere ospitò anche un oculista palermitano, tale Salvatore Migliorini, e, per breve tempo, il comm. Luciano Menegoni (o Venegoni), il quale asseriva che la sua condizione di confinato era frutto di equivoco. Sosteneva di essere amico del duce e mostrava a tutti le sue lettere che inviava al dittatore con tanto di “Caro Benito…”. Era socialista e faceva risalire l’amicizia al periodo in cui il dittatore dirigeva L’Avanti. Se fosse vero quanto sosteneva non si seppe mai, ma fu allontanato da Belvedere dopo pochi mesi dall’arrivo. Una nota per Luigi Moraldo, comunista, merita la circostanza che anche tre suoi congiunti erano contemporaneamente confinati in provincia di Cosenza: Pietro Moraldo a Saracena, Antonio Moraldo a Rose e Angelo Moraldo a Castrovillari.

Per Marcello Marrone, medico comunista, si ha certezza del suo peregrinare per la Calabria tra Belvedere, Siderno e S. Giovanni in Fiore. Anche a Belvedere gli cambiavano spesso l’abitazione: in località Scale, al Praio, in viale Stazione. Di lui scrive l’avv. Sen. Francesco Spezzano nel suo libro Fascismo e antifascismo in Calabria:

Il dott. Marcello Marrone di Roma, pur lamentando di non ricordare tutto a distanza di quaranta anni, ci ha dato notizie più che importanti. Apprendiamo così che dei comuni in cui fu confinato – Siderno, San Giovanni in Fiore e Belvedere Marittimo – ha “un ricordo vivissimo per l’ospitalità che io, studente appena ventenne, vi trovai da parte delle accoglienti e fiere popolazioni calabresi e nel dire ciò mi riferisco ovviamente non solo ai numerosi gruppetti di antifascisti e di compagni, ma anche e soprattutto alle affettuose accoglienze che trovammo ovunque fra la popolazione di ogni ceto con la sola eccezione dei pochi fascisti locali. Essi e non noi isolati dalla popolazione”. A Belvedere trovò un gruppo di antifascisti capeggiati da un operaio della locale centrale elettrica attraverso il quale poté incontrarsi anche con i comunisti di Paola e tra essi il farmacista Guido Sganga.

L’operaio elettricista era certamente Ernesto Mostardi, cosentino sposato con la signora Elvira Marra di Belvedere. Egli diventerà nel 1948 il primo segretario del PCI locale.

Il sen. Spezzano, nel citato volume, si sofferma a scrivere di Lucio Mario Luzzatto e del suo soggiorno a Belvedere. In seguito i due parlamentari discussero del caso nelle aule parlamentari:

… confinato a Belvedere Marittimo per due anni e mezzo, dal gennaio 1938 al giugno 1940 , ci racconta tra l’altro: “Con i confinati dei paesi vicini qualche volta ci è stato possibile incontrarci sui confini dei comuni vicini.

E, quando ciò non era possibile, mantenevamo il contatto tramite i fattorini delle autocorriere. La popolazione di Belvedere fu cortese ed ospitale. Gli antifascisti locali con i quali discutevo erano due falegnami (Ciccio Giunta e Peppino D’Aprile) , due  calzolai (Ciriaco Martorelli, comunista, ed Eugenio Sarpa, socialista), un operaio delle ferrovie ( Giuseppe Giunta) ed un giovane studente (Giuseppe Rogati, di cui frequentava la casa e con il quale mantenne rapporti epistolari per alcuni anni). Notizie di Cosenza mi venivano date da un rappresentante della Galbani (forse un certo Nino Nappo socialista). Qualche volta vidi anche Luigi Prato (comunista) che mi fece conoscere altri antifascisti della zona di cui non ricordo i nomi. E’ certo che la solidarietà che ci veniva manifestata era per noi un grande aiuto morale, così come è certo che la nostra presenza e la nostra chiara e decisa posizione serviva da incoraggiamento e da spinta agli antifascisti locali”.

Gli antifascisti belvederesi non erano certo pochi se si considera che l’unico nucleo urbano era il centro storico. La Marina era un borgo di circa 300 abitanti del 1925 e poco più nel 1940, così pure le frazioni di campagna non si prestavano all’aggregazione culturale e politica. Il personaggio di spicco era l’avvocato Luigi Vidiri, socialista, nella cui casa si teneva qualche riunione segreta. Gli avversari dichiarati del regime erano Ciriaco Martorelli, Ernesto Mostardi, Eugenio Sarpa, Germano Cairo, Nicola Santise, Michele Ercolano, Aristide Martorelli, Luigi Lapuista. Tutti artigiani e operai, di poca cultura, ma animati dai grandi ideali che erano seguiti al biennio rosso del primo dopoguerra ed alla rivoluzione d’ottobre. A questi vanno aggiunti gli insegnanti Egidio Rogati, repubblicano, Antonio Balzano, partito d’azione, ed il commerciante Eugenio Parise, simpatizzante comunista. C’erano poi i giovani studenti universitari che incalzavano come Vincenzo De Paula, Filippo Martorelli ed Eugenio Bencardino. I loro contatti avvenivano anche nelle botteghe artigiane come quella di Giuseppe Giunta, un bravo falegname che conosceva la musica e la insegnava, o di Eugenio Sarpa, calzolaio ed anch’egli musicista-compositore. Dall’altra parte della barricata erano collocati, quali Podestà nel ventennio, Giuseppe Mistorni (fino al 1926), Eugenio Spinelli (fino al 1937), Giovanni Grossi (per 5 mesi nel 1938) e Ciriaco D’amico (dal 1938 al 1943). Nelle vesti di segretari del Fascio e di gerarchi , vere cariche di potere nel paese, si sono alternati il dott. Vincenzo Leo, il farmacista Baldassarre Fazio ed il fratello Carlo, Gaetano Campilongo e Giovanni Zacco. Infine, quando già il regime era morente, l’avv. Umberto Jaconangelo.

Tornando a Lucio Luzzatto è certo che egli a Belvedere contrasse matrimonio il 5 febbraio 1938 con Sadun Eloisa, di anni 29, che, nel frattempo, l’aveva raggiunto.

Il Luzzatto sarà importante uomo politico nell’Italia repubblicana: parlamentare prima del PSI, poi del PSIUP ed infine del PCI in qualità di indipendente. Rivestirà anche l’incarico di vice presidente della Camera dei Deputati e di membro del Consiglio Superiore della Magistratura.

Particolarmente toccante la figura di Romolo Cani, un impiegato con una visibile menomazione ad una mano, che sbarcava il lunario con il doposcuola a ragazzini i cui genitori si sdebitavano con compensi in natura. Era presente a Belvedere anche la sua giovane moglie Lucia Camera. L’aveva conosciuta a Bisignano nel primo periodo del suo confino e, come sempre avveniva a chi sposava persone del posto, il soggiorno veniva cambiato. Dopo il 25 luglio del 1943 tentò di raggiungere il nord Italia e si aggregò ai partigiani dell’Emilia-Romagna. Fece parte della 28a Brigata Garibaldi. Nel 1944 fu catturato e “condannato a morte perché comunista” (è scritto testualmente nella sentenza). La condanna giunse a seguito di un processo sommario per l’attentato ad un ufficiale che egli ed i suoi compagni di sventura non avevano potuto commettere perché detenuti nel giorno dell’evento. I nazifascisti prelevarono cinque carcerati politici e, convocata una sessione urgente del tribunale speciale, emisero la condanna. Una delle tante azioni di rappresaglia. Fu fucilato l’11 febbraio 1944 a Faenza all’età di 42 anni lasciando la moglie ed il figlioletto Bruno. Romolo Cani era nato a Milano il 4 aprile 1902. La sua commovente e fiera ultima missiva alla moglie è contenuta nel libro “Lettere di condannati a morte della Resistenza”.

Faenza 10 febbraio 1944 ore 23:40

Mia amata Lucia ancora poche ore di vita poi sarò fucilato Il cuore non mi trema in queste ore supreme nel tracciarti queste righe che sono il mio estremo affettuoso saluto a te che lascio vedova e al mio amato Bruno che lascio orfano. Non mai dimenticarti del tuo Romolo che ti ha voluto tanto bene, e ricordami sempre a mio figlio finché sarete sulla Terra in vita. La mia più grande preoccupazione non è la morte a cui vado incontro col sorriso sulle labbra, ma il lasciarti sola con Bruno lungo la vostra vita, perché tu sei una povera anima quasi smarrita e inesperta in mezzo a tutte le cose; ti giovi quindi questo mio consiglio affinché tu possa regolarti nella esistenza. Rimanendo vedova non devi approfittarne per condurre una vita dissoluta e leggera, ma devi rimanere onesta ed esperta, altrimenti cadrai sempre in disgrazia. Se trovi un uomo che ti sposi fallo pure tuo marito, ma prima non lasciarti convincere da lusinghe e da promesse e cerca di vedere se l’uomo che ti sposa, sia un bravo e onesto lavoratore; facendo ciò ti troverai sempre contenta. Te lo garantisce il tuo Romolo che sta morendo. Ti raccomando una cosa molto importante, cioè di mandare a scuola il bambino mio affinché egli possa educarsi come si deve, e capire un giorno perché è morto il babbo. Mandalo sempre a scuola e insegnaci il bene. I soldi che ti ho lasciato sono tutti i tuoi e servano pel mantenimento della famiglia, e l’educazione di Bruno. Vendi la casa perché può essere un giorno di pericolo, e va a pagare la pigione in altra casa. Addio mia buona Lucia baciami tanto il mio Bruno e ricordaci il babbo morto. Addio. Addio, Lucia. Addio. Addio. Bruno Baci alla mia buona mamma Signora Lucia.

Camera Cani

Di Nino (Giovanni) Woditzka (dal fascismo italianizzato in Vodisca), lo Spezzano riporta il seguente brano sulla sua attività nel cosentino:

“La presenza del confinato Nino Woditzka favorì il contatto fra alcuni giovani che simpatizzavano per Giustizia e Libertà… e gli organizzatori del Partito d’Azione quali Federico Comandini, Ugo La Malfa, Ferruccio Parri”.

Nino era nato a Zara il 21 agosto del 1898. Il suo impegno in politica lo iniziò giovanissimo contro l’occupazione dell’Istria da parte del fascismo. Si definiva italiano per annessione. Nel 1923 sposò Rosa Burich, anch’essa militante nel movimento indipendentista giuliano. Nel 1929 fu condannato a tre anni di reclusione per un suo articolo contro il regime. Dal 1932 al 1936, dopo il periodo di detenzione, egli fu confinato a Ponza. Contratta la tubercolosi fu trasferito nel sanatorio Marulli di Cosenza. Nel frattempo la moglie, arrestata a Zara, fu confinata a Belvedere Marittimo ove, per brevi periodi veniva loro concesso di convivere. Rosa era nata a Canfanaro d’Istria (Pola) il 29.09.1892. Nino, nel 1944, fu vice presidente dell’INPS. Morì a Trieste il 25 ottobre del 1974.

Un testimone oculare racconta che la signora Woditzka fosse una donna nerboruta e dal carattere esplosivo. Per una controversia con il podestà Giovanni Grossi, una mattina si portò nei pressi dell’abitazione di quest’ultimo per avere udienza. Il netto rifiuto, fatto comunicare da un congiunto, provocò la reazione della signora che urlando invitò il podestà ad avere coraggio e scendere nella via. Il funzionario era un invalido di guerra con una vistosa malformazione al volto a causa di un ferimento. Gli disse a squarciagola che l’avrebbe atteso per rompergli simmetricamente l’altra parte della mandibola. Il Grossi si organizzò e, aperto il portone di casa ed aiutato da altri, l’attirò nell’androne ove la picchiò violentemente. L’episodio ebbe delle ripercussioni sulla vita di tutti i confinati con le intuibili restrizione per un certo lasso di tempo.

A Belvedere trovò spazio, tanto spazio, la solidarietà verso i perseguitati ed alcuni episodi lo testimoniano. Furono solidali i cittadini comuni, quelli che non vollero piegarsi al dominio fascista, ma anche impiegati dell’apparato comunale come coloro che furono protagonisti di quanto fra poco narro.  Ciò a voler significare che la retorica del “tutti col Duce” era significativamente falsa. L’episodio è questo:

Sempre lo stesso interlocutore, bene informato perché membro di una famiglia che annoverava al suo interno un podestà ed una guardia municipale addetta ai controlli, narra di una visita ad un confinato da parte di un congiunto. Era il fratello di Lucio Luzzatto che era sceso in Calabria. Avendolo notato un gerarca fascista, se ne discusse in una riunione negli uffici comunali ove qualcuno propose di farlo arrestare durante la notte. I Luzzatto erano intellettuali molto impegnati e, pertanto, ritenuti pericolosi. Alfredo Russo (era questo il nome della guardia), che mal sopportava i prepotenti, pregò lo spazzino Giovanni Malappione di accompagnare il visitatore a piedi in una campagna e di portarlo nottetempo alla vicina stazione ferroviaria di Diamante. Durante il giorno fu ospitato in casa di una donna che, pare, avesse un particolare rapporto con il Russo. L’operazione andò a buon fine anche grazie alla collaborazione del congiunto di un gerarca fascista che non nutriva alcuna simpatia per il regime. Così fu beffato il proposito di arresto. Salvatore Fabiano - 28.04.2014

 

 

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