cerca nel sito

Laltrasinistra, Powered by Joomla! and designed by 123WebDesign
note critiche in margine alla XLVI settimana sociale dei cattolici italiani. Reggio Calabria 17 ottobre 2010 PDF Stampa E-mail
Scritto da mauro d'aprile   

E’ con speranza che, alla luce delle innumerevoli iniziative che si stanno susseguendo nell’intero territorio nazionale quali pratiche attuazioni delle conclusioni della XLVI settimana sociale dei cattolici nella Nostra Reggio Calabria, pubblico una sintesi del documento preparatorio della stessa, riproponendolo quale stimolo all’intera Diocesi di San Marco- Scalea, nell’occasione del Santo Natale.

Nel ricordare che ad aprire i lavori generali sono stati il messaggio del Papa, la Prolusione del cardinale Angelo Bagnasco e l’intervento di Luca Diotallevi, vicepresidente del comitato scientifico e organizzatore, raccolgo il Sommario:

1. Il Documento preparatorio e lo scenario di fondo. 2. Angustia di fronte alla situazione politica. 3. Speranza di futuro. 4. Che fare?

Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro delPaese: questo il titolo della XLVI Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010, che ha avuto tra i suoi obiettivi principali quello di “declinare il bene comune” seguendo  uno stile, un metodo e un’agenda nuovi, ovvero non calati dall’alto ma da scrivere intorno a un tavolo tra tutti gli attori, sociali e non, chiamati a essere protagonisti di un rinnovato impegno per la costruzione del bene comune e a cercare le vie necessarie e più idonee a conseguirlo nell’attuale contesto socioculturale 1 (erano presenti 1213 persone provenienti da 190 diocesi italiane, 60 vescovi, 213 sacerdoti, 44 politici). Il previo coinvolgimento delle diocesi, delle associazioni ecclesiali e delle diverse realtà del mondo sociale ed economico ha fatto sì che questa settimana, a partire dal suo documento preparatorio, fosse incentrata su questioni e nodi posti dal Paese reale nel «contesto del mondo globalizzato, bisognoso di un nuovo cammino per un autentico sviluppo umano».

In questo spirito si sono svolte 4 assemblee plenarie con le relazioni di Lorenzo Ornaghi, Vittorio Parsi, Ettore Gotti Tedeschi, tendenti a focalizzare il ruolo dei cattolici in Italia, nel mondo, nell’economia, mentre una quarta relazione affidata a Giuseppe Savagnone si è soffermata su Chiesa italiana e Mezzogiorno. Si sono poi svolte le assemblee tematiche.

1. Il Documento preparatorio e lo scenario di fondo.

La lettura del documento preparatorio è necessaria per capire il senso e il tenore dei lavori, tenendo comunque conto che la chiave di lettura va cercata nell’intero magistero sociale della chiesa, nei documenti dei vescovi italiani e, in particolare, nell’enciclica sociale Caritas in veritate di Benedetto XVI. Mercato, economia ed equità, educazione, inclusione di nuove presenze, precarietà, giovani e mobilità sociale, transizione istituzionale: ecco i nodi che la Chiesa italiana affronta in un momento in cui i cattolici sono chiamati a dare significato e senso al “servire il bene comune” e, soprattutto, a cogliere il principio teoricopratico affinché questo servizio sia efficace in un momento particolarmente difficile, in cui la posta in gioco è l’Italia stessa. Un’Italia anch’essa immersa nello scenario della globalizzazione, caratterizzata da divaricazioni territoriali e regionali che la spingono verso una progressiva frammentazione; da un crescente divario tra generazioni, dalla mancanza di opportunità professionali e lavorative per i giovani che, sempre più spesso, sono costretti a rinunciare alle proprie professionalità, privati del diritto a giocarsi alla pari i propri talenti; dal divario tra chi gode e chi non gode di una qualità della vita legata a un lavoro “protetto”, tra chi studia seguendo modelli educativi offerti da istituzioni rigide e chi invece si adagia in strutture formative che in realtà non educano, non offrono istruzione ed educazione e non sviluppano ricerca, in una situazione di divaricazione tra una visione della legge quale mero comando dello stato e “diritto come diritto della persona”.(Cf. L. DIOTALLEVI, Il processo, l’agenda, l’attualità, rapporto alla prima sessione plenaria del 14 ottobre 2010, consultabile, come tutti gli altri interventi alla Settimana, sul sito ufficiale: www.settimanesociali.it [visitato il 2-12-2011]).

Tutto questo accresce l’ansia ecclesiale o, per dirla col cardinale Bagnasco, l’angustia per il nostro Paese e induce a porre la domanda: può servire l’Italia al bene comune? Ben inteso, l’Italia non solo nella sua conformazione geopolitica, ma nella sua unità di valori e intenti. Un concetto, questo dell’Italia, non vago e indefinito, ma che fa guardare alla nazione come comunità nazionale costituita da reti culturali e istituzionali:

in questo contesto prende corpo l’esortazione universale del papa, nella Caritas in veritate, a percorrere «una via istituzionale della carità». Quest’espressione ben sintetizza l’atteggiamento responsabile richiesto e la visione di uno sguardo ampio su aspetti economici e sociali quanto culturali e spirituali. È, infatti, illusorio aspettare e pretendere risposte solo dalle pubbliche autorità, anzi «i soggetti politici, il mondo dell’impresa, le organizzazioni sindacali, gli operatori sociali e tutti i cittadini, in quanto singoli e in forma associata, sono chiamati a maturare una forte capacità di analisi, di lungimiranza e di partecipazione». In un cammino di corresponsabilità s’innesta, dunque, la ricerca del bene comune, leit motiv dell’intera discussione. “Bene” inteso come quel “bene di noi tutti”, quel bene che, nella dottrina sociale della chiesa, è costitutivo di una città degli uomini fondata sulla giustizia e sulla carità. In questo senso, si ritiene necessario adoperarsi perché la cooperazione tra gli uomini diventi interazione di coscienze e intelligenze.

2. Angustia di fronte alla situazione politica.

I credenti sono invitati a soffermarsi, allora, sul senso della politica oggi, anzi, per dirla con il professor Ornaghi, sulle rappresentazioni che di essa si hanno. Rappresentazioni che, in un’epoca di particolare sfiducia nei confronti delle istituzioni, hanno dato vita a quella che lo studioso francese Pierre Rosanvallon definisce “contro-democrazia”. Nel prendere in prestito questa definizione, Ornaghi, nella sua relazione all’assemblea plenaria, tende a sottolineare ulteriormente una sorta di sfiducia nei confronti delle “virtù” della politica, necessarie a migliorare le condizioni di vita di ciascuno. Questa “contro-democrazia”, che è da intendersi come reazione dei governati all’incapacità di offrire soluzioni da parte dei governanti, avvertiti spesso come non credibili, si trasforma in “contro-politica” quando a essere messi in discussione, e addirittura banalizzati, sono i poteri stessi della politica; se da un lato, infatti, governo e opposizione sembrano essere mossi solo dal timore di evitare critiche per la propria azione (o inazione) politica, dall’altro i cittadini-elettori tendono a sviluppare una sfiducia nella reale possibilità di veder migliorare il proprio stato. Vi è senza dubbio un vuoto di rappresentatività accentuato ulteriormente dal moderno equivoco, provocato dai regimi democratici, di dare vita a poteri oligarchici, vuoto che nel caso specifico italiano dà vita, si dice, a una «personalizzazione populistica della leadership di vertice». Un vuoto di rappresentatività politica che potrebbe trovare il suo rimedio, invece, in una forte rappresentatività sociale, cioè in quelle organizzazioni di volontariato, quei movimenti, quelle associazioni, fatte di popolo, che esprimono il genuino sentire di aspirazioni e delusioni e che, in maniera disinteressata, offrono la propria opera a servizio delle comunità locali. La riconoscenza verso questa seconda rappresentatività, anzi, potrebbe dare senso a ogni riforma sia elettorale che costituzionale, a ogni intervento politico che vorrà essere socialmente compreso e partecipato, potrà in ultima analisi dare vita a una nuova stagione dei partiti politici italiani. Paradigma ulteriore del senso, ma non solo, delle fratture e frammentazioni che viviamo, è la diffusione di una visione di due Italie diverse, che incombono sulla necessaria unità nazionale, ma anche su di una nuova aspirata conformazione politica. Dati macroeconomici del welfare, del lavoro, dell’istruzione, marcano in maniera decisa gli squilibri

territoriali, denotando una frattura che può essere ricomposta, come prospettato da Ornaghi, solo da un federalismo che, per sortire i suoi effetti e risanare lacerazioni politico-sociali, dovremo definire, in sintonia con il linguaggio dei vescovi italiani, solidale. Con questa accezione di federalismo si dovrà intendere molto più che un processo politico- istituzionale in atto, da recepire e attuare, bensì un cambio di mentalità, un necessario sviluppo culturale «in cui si combinano il crescente pluralismo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose» 10. In linea con la lungimirante visione regionalistica di don Luigi Sturzo e Aldo Moro, quest’auspicato federalismo solidale diviene, dunque, la capacità di organizzare e ridistribuire poteri e risorse in un “assetto Paese” che tenga fortemente connessi solidarietà e sussidiarietà, per non scadere nel “particolarismo sociale” o nell’“assistenzialismo”. È con questo spirito che il federalismo diviene sfida particolare per il Mezzogiorno a rivedere i rapporti sociali, a sentirsi soggetto collettivo responsabile, nell’azione di governo regionale e municipale, della qualità dei servizi erogati al cittadino. In questo contesto, se il federalismo fiscale, da solo, non sarà sufficiente a colmare il divario esistente a livello infrastrutturale, produttivo, occupazionale e civile, produrrà certamente frutti se, a livello nazionale, darà vita a un sistema integrato d’investimenti pubblici e privati in grado di garantire la lotta alla criminalità, l’integrazione sociale e la creazione di nuove efficienti infrastrutture. Lo Stato, dovendo garantire comunque i diritti fondamentali e i livelli essenziali di servizi alle persone, dovrà distribuire in maniera mirata ma omogenea le risorse disponibili «per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale» 11. Federalismo fiscale dovrà comunque significare, in ogni caso, costruire un percorso che abbia come riferimento la solidarietà, segnato dalla lotta agli sprechi e dal «passaggio dalla spesa storica (che finanzia servizi e inefficienza) ai costi standard (che finanziano i servizi)». Ritornando al Mezzogiorno, in ogni modo, bisogna aver ben chiaro che qualunque innovazione giuridica, infrastrutturale o che sia, ogni lotta alle mafie e alla criminalità, non avranno alcun senso e fondamento se non precedute da una innovazione culturale. In questo le Chiese del Sud (ma anche del Nord) giocano un ruolo fondamentale: sono chiamate, infatti, non solo a denunciare crimini, aberrazioni e illegalità, ma soprattutto a ripensare la pastorale ordinaria, pensando a un progetto educativo che valorizzi in maniera integrale il laicato nelle sue diverse dimensioni professionale, familiare, politica. Questo ripensamento della pastorale coinvolge l’intera Italia, per questo aver cura nazionale del Sud vuol dire pensare all’intera nazione, poiché non vi può essere nessun sviluppo se non in tutte le sue componenti e articolazioni regionali e territoriali.

Nel centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, tutto questo si carica di ancor maggior significato: celebrare il convegno a Reggio Calabria (è la seconda volta che la città ospita una Settimana sociale, la prima nel 1960 con la XXXIII edizione, dedicata a Migrazioni interne e internazionali), ha sottolineato il presidente Napolitano, è ancor più significativo, poiché in tale territorio cittadino si concentrano problematiche che riguardano tutti e che troppo spesso vengono ricondotte, in maniera semplicistica, alla sola crisi economica, che è pur gravida di conseguenze e forse la più forte degli ultimi decenni. Nella sua lettura della crisi, Gotti Tedeschi offre una chiave interpretativa che va ben oltre le cifre numeriche. È significativo come, al centro della sua relazione, ponga il quesito legato alla crescita di popolazione e agli  effetti che questa può avere nella nostra società. In controtendenza con altri economisti, il presidente dello IOR afferma che, senza un aumento delle nascite, vi è da prevedere un’implosione delle economie, causata da una mancanza di consumi, perciò, una popolazione sempre più anziana porterà, come inevitabile conseguenza, a un innalzamento delle tasse, per mantenere buoni livelli di Pil, ma pure meno investimenti e meno aiuti ai paesi bisognosi. In questo contesto di crisi, s’inserisce la riflessione sul mondo del lavoro, minacciato dalla grave patologia del precariato, sia nel settore pubblico che nel privato. Il precariato dovrà fare i conti con un sempre maggiore invecchiamento della popolazione, con quegli squilibri territoriali a cui prima abbiamo accennato, che avranno come naturale ulteriore effetto un incremento della pressione migratoria con conseguente inurbamento. Di qui un perentorio monito: «Se non introdurremo correttivi, cambiando le logiche di funzionamento del nostro sistema di relazioni industriali e di lavoro, non fermeremo

certo la storia e lo sviluppo della economia a livello globale, ma certamente saremo gli unici responsabili del progressivo declino del nostro Paese». Non si può non tener conto del fatto che al centro del mercato del lavoro vi è, oggi, una persona che passa da una fase di occupazione a una di disoccupazione o sottoccupazione e che, pertanto, a mutare è la stessa concezione di tutela del posto di lavoro, tutela che dovrebbe attuarsi tramite la riconsiderazione e il rinnovamento di comportamenti e modelli sindacali, tramite il coinvolgimento del mondo associativo e degli enti bilaterali, di organismi, cioè, che abbiano capacità auto-regolativa, nati dalla reciproca iniziativa di associazioni di lavoratori e di datori di lavoro. Ma soprattutto, è necessario garantire la formazione a competenze altamente professionali, in modo che il lavoratore, nei momenti di transizione ad altro lavoro, non si senta spaesato e gestisca al meglio le criticità che è chiamato ad affrontare. Questo vorrà dire prendersi cura della persona al di là di servizi sociali o prestazioni assistenziali; la dimensione di un welfare delle “opportunità” tenderà sostanzialmente al miglioramento della vita di ogni giorno. Ma la riflessione sul lavoro impone l’ulteriore riflessione sulla distanza che c’è tra il mondo del lavoro e quello della scuola, distanza da colmare in virtù proprio di una spinta economica verso una «domanda che tenga più conto anche della formazione formale», per incentivare appunto i giovani a investire su se stessi oltre che «ad accrescere il livello culturale e scientifico del tessuto economico nazionale». La sfida a voler sostenere una nuova crescita, a valorizzare il lavoro, a voler contrastare elevati livelli di diseguaglianza, passa attraverso una mobilitazione diffusa che coinvolge la coscienza civica individuale e collettiva, entrambe animate dal sentimento di giustizia. Poiché è proprio la giustizia, direbbe Amartya Sen, che ha cura della persona, creando i presupposti e le condizioni necessarie a realizzare le aspettative di vita di ciascuno. La preoccupazione della distribuzione di risorse materiali (“visione statica dell’uguaglianza”) dev’essere superata dall’ansia e dalla preoccupazione di piani di investimento sulle persone e sul loro ambiente perché a tutti sia data la possibilità di cogliere le offerte che la vita riserva.

La mobilità ha anche un’altra dimensione che quasi naturalmente viene richiamata, l’inclusione. Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI scrive: «Il tema dello sviluppo coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli […] che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace» 18. In un contesto multiculturale di cui anche l’Italia è protagonista, l’inclusione cambia le nostre città rendendole aperte al dialogo, alla solidarietà, alla fraternità tra culture e popoli, rendendole più umane, più attente alle persone che sono chiamate comunque ad accogliere 19. In virtù proprio della cura, più volte richiamata, alla luce anche degli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, non si può non tener conto della naturale declinazione di questa cura: l’educazione, che non è semplicemente mantenere, istruire e formare, ma è cultura profonda, intima, trasversale a ogni fase, a ogni transizione di età, a ogni mutamento sociale, sottende a ogni sviluppo economico o umano che sia. C’è una rilevanza pubblica dell’educazione che non può essere svilita, ma dev’essere difesa e promossa; si pensi alla scuola, all’università, al mondo della ricerca in generale. C’è una rilevanza particolare dell’educazione che prepara ogni altra formazione o istruzione, e risiede nella struttura principe di ogni società, e cioè nella famiglia. Politiche serie di sostegno alle famiglie significano pensare seriamente al proprio futuro (si consideri anche il fatto che le povertà familiari alle quali far fronte non sono solo di origine materiale, ma che spesso sono accentuate ed esasperate da povertà relazionali ben più gravi). Educare vuol dire anche e soprattutto guardare in faccia la crisi che gli adulti oggi vivono nel non sentire l’urgenza di essere modello educativo per le nuove generazioni. Famiglia-scuolalavoro: questo il percorso suggerito per un reale sviluppo e per la ripresa della crescita. Senza sottovalutare il contributo e l’esperienza illuminante dell’associazionismo cattolico, bisogna pur riconoscere che è nelle famiglie che si vivono le dinamiche fondative dell’essere di ciascun uomo e che nella scuola, in senso lato, si formano le coscienze civiche e le competenze del futuro, perciò tutti, insieme, si dovrà tendere a educare a una cittadinanza responsabile. Inclusione e cittadinanza consentono, seppur brevemente, un’ulteriore riflessione sul moltiplicarsi delle «arene significative per la politica internazionale». Il caso eclatante della Cina, oltre a farci interrogare sull’equilibrio tra autoritarismo politico e liberalizzazione economica, nonché tra autorità e diritti umani e società civile, ci ricorda che il mondo vive oggi una forte frammentazione geopolitica e temporale. «Europei e americani vivono già in un’epoca “posteroica” se non postmoderna, mentre ci sono popoli e regioni del mondo per le quali la modernità politica resta la dimensione di riferimento, e altri che devono ancora arrivare alla modernità, com’è il caso del Medio Oriente allargato e di gran parte dell’Africa».  In questo contesto l’Europa, e dunque l’Italia, restano luoghi significativi ed emblematici, riferimento per ogni nascita, sviluppo e azione di società civile. Lo restano proprio per lo sforzo a essere sistemi aperti senza alcuna pretesa a voler sostituire o annientare gli «assetti più tradizionali e immutabili della politica tradizionale». Nella costituzione stessa dell’identità europea, e quindi nel confronto e dall’apporto politico, sociale, culturale ed economico di ogni Stato membro, non si può non tener conto delle differenze tra paese e paese, come ad esempio dimostra il dibattito biopolitico. Su queste differenze percepibili non solo tra paese e paese ma all’interno di uno stesso paese, data ormai la presenza di diverse culture, si deve concentrare l’elaborazione e la promozione di un bene comune volto a costituire una nuova “res publica europea” che garantisca i valori irrinunciabili del diritto, della libertà e della democrazia.

3. Speranza di futuro

L’analisi sull’Italia fin qui condotta non avrebbe senso, sarebbe fuorviante e non in linea con lo spirito dell’essere cristiano, se non ci offrisse anche la possibilità di rileggere questi tempi con i suoi dubbi e le sue incertezze, con le sue crisi, ma anche con le sue aspettative, attraverso il prisma della virtù della speranza. Speranza cristiana, che è riconoscere e credere che la storia è guidata dalla divina Provvidenza, che il bene comune è possibile se scaturente dall’unico Bene e che da questo deve scaturire ogni azione. Sarebbe fuorviante se, in quanto cittadini  cattolici, non si pensasse di vivere contemporaneamente la civitas mundi e la civitas Dei; entrambe hanno come scopo il bene delle medesime persone, «bene che, pur avendo differenti e specifiche nature nelle rispettive sfere, tuttavia non si escludono e non sono tra loro contradditori. Infatti, il bene supremo della vita eterna non ostacola il bene materiale dell’individuo e della società, al contrario lo promuove con iniziative sociali e umanitarie che la chiesa pratica da sempre. Ma soprattutto lo promuove annunciando in Cristo Gesù la pienezza dell’umanità dell’uomo, e il criterio irrinunciabile della sua dignità integrale come misura di ogni progresso e bene immediato» 23. Si tratta allora d’interrogarsi sul ruolo, ma ancor di più sullo stile, che il cattolico assume nel mondo, nonché sul senso di una “laicità positiva”, che deve fare oggi i conti con un laicismo di cui il mondo sembra pervaso. Benedetto XVI, ricorda il cardinale Bagnasco nella sua Prolusione, nel corso del viaggio apostolico nel Regno Unito, ha sottolineato ancora una volta il ruolo liberante della religione nella sfera pubblica, il ruolo di garanzia all’uguaglianza e al rispetto per la dignità di ogni persona “a qualunque cultura o società appartenga”. Prima di continuare su questa linea, si dovrebbe rivolgere ancora una domanda al cuore e alla coscienza cristiana circa l’eventuale presenza di una convinzione che non sia stato e non sia il cristianesimo stesso, con la sua visione ideale di riferimento,

a ostacolare il progresso, la democrazia, la pace. Più che al cristianesimo, bisogna guardare ai cristiani, a una certa incoerenza diffusa tra fede e prassi civile, sociale e politica. In altri termini, occorre interrogarsi sul fondamento etico di ogni scelta, avendo ben chiaro in mente che il ruolo della religione nella sfera politica e pubblica è quello d’illuminare la ragione nella scoperta di principi morali oggettivi. Si riafferma qui il necessario dialogo tra fede e ragione, un dialogo finalizzato a un mutuo riconoscimento, dove anche l’uso “correttivo” svolto dalla religione nel contesto socioculturale, auspicato da Benedetto XVI, non vuol dire supremazia di una sfera sull’altra, ma l’obiettiva costatazione di protendere tutti verso un unico scopo: il bene dell’uomo, il bene della nostra civiltà. Non c’è espressione più vera e condivisibile di quella che si legge nella Caritas in veritate: è difficile pensare a un’etica sociale senza pensare a un’etica della vita dal suo concepimento fino alla morte. È importante notare e sottolineare come tutte le relazioni e gli interventi e, ancor di più, il lavoro delle assemblee tematiche (svoltesi trasversalmente nell’intera Settimana con comunicazioni finali che meriterebbero maggiore attenzione e ulteriore spazio per la genuinità e il valore delle riflessioni nate dall’esperienza professionale e di vita dei partecipanti, nonché radicate sul vissuto delle comunità locali) abbiano dato come chiave di volta per un reale cambiamento e miglioramento la centralità della persona, della sua dignità e ancora quanto trasversale sia stata, come ribadito nelle conclusioni da Luca Diotallevi, la richiesta di un diritto all’informazione senza il quale è a rischio la qualità civile di una società, quella informazione che è proprio il primo passo verso una partecipazione attenta e consapevole.

4. Che fare?

Negli interventi, tutti di altissimo profilo, oltre a cogliere insegnamenti e spunti di approfondimento, si costatano esperienze e conoscenze che costituiscono un patrimonio cattolico spesso poco visibile, poiché di frequente scarso è l’impegno dei cattolici a volersi spendere nella sfera politica e pubblica per trasformare idee e valori in prassi. Questa Settimana non offre ricette, ma una serie di indicazioni e testimonianze, che danno la percezione della fattibilità a percorrere vie istituzionali orientate dalla fede cristiana. Probabilmente un’agenda come quella di Reggio Calabria avrebbe dovuto prevedere, in fase conclusiva, scadenze al di là della Settimana celebrata, perché contenuti, metodi e risultati non si perdessero nel tempo, ma fossero maturati, monitorati con iniziative in grado di rendere ragione dei risultati raggiunti almeno nei singoli territori diocesani. Sulla scorta degli incontri preparatori, incontri di attuazione e verifica a livello locale, potrebbero dare maggiore incisività, visibilità e voce a un mondo cattolico in fermento.

Allora che fare? «Ai cattolici con doti di mente e di cuore diciamo di buttarsi nell’agone, di investire il loro patrimonio di credibilità», poiché, come con veemenza ha detto il cardinale Bagnasco all’Assemblea generale della Cei, riunitasi ad Assisi dall’8 all’11 novembre 2009, “il paese non può rassegnarsi a galleggiare”. Concretamente, un segnale in questa direzione arriva proprio dalla Chiesa di Napoli, che già fu la diocesi che promosse il Convegno delle Chiese del Sud, un anno prima del documento della Cei e dal quale scaturì il volume Chiesa nel Sud, Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili. Il cardinale Crescenzio Sepe, infatti, ha indetto per il 2011 un “Giubileo per Napoli”, nell’intento di servire proprio il bene comune, coinvolgendo sindacati, imprenditori, uomini di cultura, esperti di vari Paesi, istituzioni, operatori economici, clero e laicato cattolico. Una provocazione a voler agire, ma, ancor di più, a voler uscire fuori dall’immobilismo: «La trattativa non è soltanto economica e sindacale. Stavolta si contratta la speranza, ovvero si decide come aiutarsi reciprocamente a sognare e ricominciare; fiducia è la versione laica della parola “fede”». In ultimo, è bene segnalare la sollecitudine del mondo accademico su questi temi, in particolare della Sezione S. Tommaso d’Aquino dell Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, che sta dedicando una serie di Seminari di approfondimento al documento dei vescovi italiani Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, con il contributo di studiosi di diverse aree disciplinari e di operatori impegnati nella società e nella pastorale. Frutto di questo lavoro è già un primo volume dal titolo Quale sviluppo solidale?, che segna concretamente l’interesse, la volontà e la disponibilità a voler contribuire con intelligenza e abnegazione alla rinascita del nostro Paese. Tutto questo senza dimenticare il senso e la cristiana consapevolezza che ogni risposta e ogni proposta decisiva per il bene dell’Italia trova la sua efficacia nella preghiera, nel rapporto con Dio da cui scaturisce ogni bene, nell’esistenza cristianamente orientata. Mauro D’Aprile - 20.12.2011

e-max.it: your social media marketing partner
 

Questo sito utilizza i cookie per gestire la navigazione ed altre funzioni.Chiudendo questo banner o cliccando su qualunque elemento di questa pagina acconsenti all'uso dei cookie. Per ulteriori informazioni sui cookie che utilizziamo e come eliminarli, visitare la nostra pagina cookies police.

Accetto i cookie di questo sito.

EU Cookie Directive Module Information